Avanguardie e retroguardie nella battaglia per il futuro del giornalismo

Mario Tedeschini-Lalli
11 min readOct 3, 2019

di Rasmus Kleis Nielsen

L’autore di questo post è direttore del Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford. Qui riflette sui più comuni atteggiamenti dei giornalisti e degli editori d’informazione di fronte agli sconvolgimenti prodotti dalla rivoluzione digitale. Molte sue considerazioni sono comuni al non vasto gruppo di persone che negli ultimi venti anni ha cercato di studiare con realismo il fenomeno e di suggerire possibili vie di sopravvivenza per il giornalismo, così come comuni sono le reazioni che il più delle volte questi tentativi hanno prodotto.

Riconoscendomi nell’esperienza di questo gruppo, ho ritenuto utile che esistesse anche una versione italiana del testo. Rasmus me lo ha cortesemente concesso. Qui trovate il suo originale intitolato: Vanguards and rearguards in the fight for the future of journalism, pubblicato il 1 ottobre 2019.

C’è chi si sentirà chiamato in causa e chi — per questo — forse si adonterà. Io mi limito a indicare che le battaglie di retroguardia in ogni guerra sono certo importanti, ma non servono a conquistare un solo centimetro di terreno in più. Solo a rinviare la sconfitta.

Pubblicità del New York Times al World News Media Congress di Glasgow, giugno 2019

The truth is hard/La verità è difficile”

Nell’anno passato mi è capitato ripetutamente di incontrare questa citazione, il più delle volte nella forma di una pubblicità del New York Times in diversi eventi che avevano a che fare con i media.

Una verità non difficile è la seguente: nel mio primo anno come direttore del Reuters Institute for the Study of Journalism, sono stato realmente e profondamente ispirato dall’ambizione, dal desiderio e dalla battaglia di molti giornalisti, direttori e leader dei media per il cambiamento nel giornalismo.

Chiamiamoli l’avanguardia.

L’avanguardia è spesso cosa di giovani, ma non è solo cosa di giovani — Maria Ressa di Rappler e Marty Baron del Washington Post non sono di primo pelo eppure avanzano con decisione verso il futuro del giornalismo, come anche Kath Viner del Guardian, Siddharth Varadarajan di The Wire e molti altri che qualche cosetta anche loro l’hanno fatta. E tuttavia anche l’età è forse un fattore: alla certezza assoluta di molti che il giornalismo come l’abbiamo conosciuto non prospererà nel 21° secolo fa da contraltare la supposizione di alcuni giornalisti più anziani che esso, nonostante tutto, possa ancora sopravvivere oltre l’arco della loro vita professionale.

Quest’ultima posizione è una verità più difficile da affrontare, il persistere cioè di una mentalità che rischia di creare danni permanenti alla professione giornalistica e agli organi d’informazione che la sostengono, rendendo più complicata una serie di sfide già difficili. E’ la mentalità di quanti dicono di credere che la gente si stuferà degli smartphone e tornerà alla carta stampata, che la gente lascerà perdere il video-on-demand e si rivolgerà di nuovo alla programmazione della televisione lineare e che i giornalisti possono tranquillamente guardare con condiscendenza e prendere in giro i valori e le priorità delle nuove generazioni in quanto vistosamente anti-discriminatori e politicamente corretti fino al ridicolo.

Questa è la retroguardia.

Questa mentalità non è visibile nella maggior parte delle conferenze sul “futuro del giornalismo”, ma ne incontro almeno qualche esponente a ogni evento di settore cui partecipo e molti nella maggior parte degli organi d’informazione che visito — e hanno un sacco di anime gemelle tra i (più anziani) responsabili politici.

La retroguardia pensa che il problema sia che il mondo è cambiato troppo. L’avanguardia pensa che il problema sia che il giornalismo non è cambiato abbastanza.

Mai nulla è in bianco e nero, ma a metterla giù rozzamente, vedo un gruppo di giornalisti e di leader dei media che vogliono sviluppare e cambiare la professione e i modelli di finanziamento che la rendono possibile in modo che si adattino al mondo in cambiamento e all’ambiente digitale dei media. E tuttavia incontro anche costantemente un altro gruppo di giornalisti e di leader dei media che non la vedono in questo modo, che preferirebbero piuttosto riversare le loro energie in vani tentativi di ripristinare un passato romantico, espunto dei difetti, idealizzato nelle sue (molto reali) virtù e apprezzato per la stabilità che offriva, sia in termini di sicurezza professionale e avanzamenti di carriera, sia in termini di modelli d’affari per i media.

La mia esperienza mi dice che la generazione più giovane, per la stragrande maggioranza, fa parte del primo gruppo. E la generazione più anziana? Dipende. L’avanguardia è piena di donne ed è sociologicamente assai diversificata. La retroguardia è piena di uomini bianchi come me.

Sia l’avanguardia, sia la retroguardia hanno a cuore il giornalismo, ma il divario che le separa è un problema per la professione e per il settore, perché se il primo gruppo si batte per diverse visioni di un futuro incerto, il secondo gruppo difende un passato defunto che — pur avendo avuto molto da offrire — in molti sensi non serve più. I più anziani della retroguardia potrebbero non fare esperienza di tutte le conseguenze del loro conservatorismo. Il come-si-è-sempre fatto, magari condito con qualche gesto di apprezzamento nei confronti dell’Intelligenza artificiale e dei blockchain, potrebbe in effetti durare al di là della loro vita professionale (purché siano abbastanza vicini alla pensione). Nel frattempo, però, questa mentalità continuerà a minare la capacità del giornalismo di adattarsi, ricostruirsi e rinnovarsi e la professione, specialmente i giornalisti più giovani, dovrà sopportare le conseguenze di questo conservatorismo. Si tratta di un divario generazionale spesso non riconosciuto ma sempre presente e molto reale.

The truth isn’t so obvious/La verità non è così ovvia”

Questa è un’altra parte della stessa pubblicità del New York Times. E lo sappiamo bene. Abbiamo definito la missione del Reuters Institute quest’anno come “esplorare il futuro del giornalismo in tutto il mondo attraverso il dibattito, il coinvolgimento e la ricerca”, che si basa su tre premesse: (1) non vogliamo combattere le battaglie di ieri, guarderemo al futuro, (2) non sappiamo come sarà il futuro o come dovrebbe essere, perciò lo esploreremo con tutti i mezzi disponibili e (3) pensiamo che nessuno possa aver successo in questo percorso da solo, ci focalizzeremo pertanto sulla collaborazione e sulla conversazione.

Tuttavia ci sono alcune cose che sappiamo e benché queste cose possano essere tra quelle verità che il New York Times indica come difficili da ascoltare, sono verità che non possono essere messe da parte.

  • Il giornalismo è ancora importante per la democrazia. (Sì — spesso in senso buono, ma a volte in senso negativo)
  • Il giornalismo è importante per tenere unite le comunità e le società ( Sì — ma anche per dividerle, a volte)
  • Il giornalismo è una parte importante del settore economico dei media e della tecnologia (Sì — ma una parte piccola e che va riducendosi)

Nella mia esperienza, molti della retroguardia vorrebbero fermarsi alla prima parte celebrativa di ogni affermazione. Sembra preferiscano un discorso in un dopocena che celebra il valore della parte migliore del giornalismo, rispetto a una descrizione accurata del giornalismo nel suo stato attuale. Ma come suggerisce ciascuna di queste parentesi, non ci possiamo onestamente fermare qui. E benché i discorsi al termine di una cena sociale possano darti un senso di benessere, programmare il tuo futuro in base ad essi come se si trattasse di analisi conduce a risultati catastrofici, che sarebbero evitabili.

Inoltre, mentre il pubblico potrebbe essere disponibile ad ascoltare quella versione di che cos’è e che cosa significa il giornalismo in un dopocena (godiamo ancora di una riserva di benevolenza), non lo accetterebbe come una descrizione seria.

Una gran parte del pubblico non ha fiducia nel giornalismo, pensa che abbia un valore limitato (o sia addirittura uno spreco delle loro risorse) e non gli presta grande attenzione. Una mancanza di interesse che va ben al di là delle imperfezioni che la maggioranza dei giornalisti è disposta a riconoscere.

Per illustrare ciascun punto consideriamo tre dei risultati della ricerca del Reuters Institute condotta nell’anno passato:

Non sottolineerò mai abbastanza quanto sia importante che affrontiamo questi problemi. Lucy Küng spesso cita questo passaggio di un’intervista quando si discute del modello d’affari del giornalismo.

Intervistatore: “Qual è il vostro errore più grande?”

Amministratore delegato di un’azienda dei media: “Dico sempre che se potessi tornare dieci anni indietro nel tempo, (…) non direi ‘Internet diventerà una cosa grossa’… direi invece ‘Il tuo modello d’affari sarà fottuto più di quello che ora riesci a immaginare. Quello che ti sembra ora lo scenario più sfavorevole è solo un graffio’.”

“Solo un graffio.” E se questo si applicasse non solo al modello di affari del giornalismo, ma anche al legame tra il giornalismo e il pubblico?

Il giornalismo esiste nel contesto del suo pubblico. Il suo valore pubblico, il suo potere politico, il suo significato sociale, la sua sostenibilità aziendale, la sua legittimazione ad ottenere fondi pubblici e filantropici — tutto questo ha come premessa il suo legame con il pubblico. Quel legame in molti casi è appeso a un filo e tocca a noi mantenerlo, rinnovarlo e rinforzarlo.

L’avanguardia questo lo capisce. La retroguardia rifiuta di accettarlo.

The truth is powerful/La verità è potente”

Le resistenze che spesso incontriamo quando presentiamo risultati come questi fanno pensare che alcuni nella professione e nelle aziende preferiscano tifosi addomesticati ai ricercatori indipendenti e respingono i risultati più impegnativi, considerandoli frutto di deprimente catastrofismo. Alcuni — sembra — preferirebbero avere a che fare solo con ricerche che dicono che il giornalismo è grande ed era anche più grande in passato.

La maggior parte dell’avanguardia, invece, fa propria la nostra ricerca, dato che in gran parte essa sottolinea la necessità assoluta del cambiamento, un cambiamento che dovrà andare ben al di là di questa o quell’altra questione di tattica, ottimizzazione o aggiustamento, riguarderà invece le questioni fondamentali dello scopo (a che serviamo?), del valore (che problemi cerchiamo di risolvere e per chi?) e di strategia (come arriviamo dove dovremo trovarci per essere in grado di far tutto questo?).

La retroguardia? L’idea prevalente sembra essere che le verità difficili riguardano gli altri.

Un atteggiamento che sembra romanticamente idealizzare un giornalismo che — con tutti i suoi valori — ci ha traditi sul cambiamento climatico, nel periodo precedente alla crisi finanziaria e nella cronaca acritica dei media digitali in tutti gli anni 2000, un giornalismo che è spesso sembrato fuori fase rispetto a #BlackLivesMatter, #Fightfor15, #MeToo e alle ondate di appoggio alla Brexit, a Narendra Modi e a Donald Trump, un giornalismo che è per la più parte ancora basato sul modello di affari dei mass media che presto non avrà più molto senso.

Le verità difficili non riguardano soltanto gli altri. Riguardano anche noi.

Al Reuters Institute, continueremo a fare ricerca indipendente, basata sulle evidenze, di respiro internazionale sul maggior numero possibile delle importanti questioni che sono di fronte al giornalismo mondiale, che i risultati siano confortanti o no, che riguardino le molte sfide esterne sulle quali abbiamo poco controllo (pressioni politiche, modelli di affari sempre più problematici, crescita delle piattaforme), o che riguardino quelle che noi, insieme, possiamo in effetti affrontare (come coinvolgere la gente, creare valore e ottenere fiducia e cambiare le nostre organizzazioni).

Il Reuters Institute non è schierato con nessuno, avanguardia o retroguardia, ma i nostri risultati sono in grandissima parte in linea con il punto di vista dell’avanguardia e raramente con quello della retroguardia. (Se i fatti cambiano, cambierà anche come la pensiamo). Esamineremo il futuro del giornalismo con chiunque voglia essere coinvolto (e con l’aiuto del nuovo Steering Committee e del nuovo Advisory Board che riflettono meglio la varietà del nostro programma di borse per il giornalismo e della professione nel suo complesso).

Speriamo — con la discussione, il coinvolgimento e la ricerca — di poter aiutare un maggior numero di giornalisti, direttori e leader dei media a sviluppare la loro comprensione di (a) come sta cambiando l’ambiente dei media, (b) che cosa significa per la loro organizzazione e ( c) che cosa possono fare per avere successo sul piano professionale e aziendale in questo ambiente in mutazione.

Ciascuno dovrà farsi la propria idea, ma con ogni programma che mettiamo in campo, con ogni evento cui partecipiamo, ogni rapporto che pubblichiamo, vedo qualche persona in più — alcuni giovani, alcuni anziani — arrivare alla conclusione che continuare come prima non è la risposta, che ritornare al passato non è né giusto né possibile e che dobbiamo invece spingerci in avanti verso un futuro incerto. Vedo che costoro si uniscono alla avanguardia, una avanguardia dove c’è sempre spazio per altri e una avanguardia che ha bisogno di esperienza quanto di energia, di conoscenza quanto di innovazione.

Tutto questo è importante perché le azioni di retroguardia non ci condurranno al futuro, e non c’è nessuno che arriverà a salvarci — non le piattaforme e non i governi. Se il giornalismo e l’editoria giornalistica che lo sostiene (e lo limita) devono essere salvati, devono salvarsi da soli, se devono ricostruirsi, devono ricostruirsi da soli.

Vi assicuro questo: continueremo a dire come ci sembra che le cose stiano, nonostante il flusso di email adirate che ricevo ogni volta che un nostro studio non riflette l’auto-comprensione della retroguardia, o sfida alcune banalità di come il giornalismo e le aziende editoriali amano presentarsi al pubblico e ai responsabili della politica.

Lo facciamo proprio come il giornalismo, che ricerca la verità e ne riferisce, non perché sappia esattamente che cosa ci aspetta nel futuro o esattamente come risolvere le questioni di oggi, ma perché il giornalismo, al suo meglio, si basa sulla convinzione che la verità è potente. Le persone che hanno accesso a informazioni rilevanti e affidabili e hanno la possibilità di discuterne con i propri pari, prenderanno decisioni migliori.

Lo stesso ruolo che noi cerchiamo di svolgere, al meglio delle nostre possibilità, nei confronti della professione, delle aziende editoriali e dei loro vari interlocutori: offrire analisi e documentazione indipendenti, suscitare e ospitare il dibattito, insistere sulla importanza di affrontare le grandi questioni, per quanto inopportune e scomode esse possano essere per gli operatori storici e per le elite. Questo, focalizzarsi sull’esplorazione del futuro del giornalismo attraverso la discussione, il coinvolgimento e la ricerca, è la nostra risposta alla domanda che ho posto lo scorso anno quando ho assunto l’incarico di direttore: che cosa possiamo fare per aiutare i giornalisti (e tutti noi che al giornalismo facciamo affidamento) a reinventare la professione e il settore?

Non sappiamo quali siano le risposte e non sappiamo esattamente che cosa il futuro riservi per il giornalismo, ma vogliamo essere parte di questo viaggio e continueremo a cercare risposte attraverso i nostri fellowship program di giornalismo, i nostri leadership program e i nostri programmi di ricerca.

Non come tifosi addomesticati (o depressi catastrofisti). Ma come esploratori del futuro del giornalismo.

Speriamo che vi uniate a noi.

Ringrazio Carlo Felice Dalla Pasqua per l’amichevole aiuto nella traduzione dell’originale. Saranno graditi suggerimenti per migliorare la versione.

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Mario Tedeschini-Lalli

Antico giornalista. Consulente di editoria digitale. Docente di Giornalismo digitale. Studioso di Storia contemporanea. Blog (2003/18): http://bit.ly/blogmario