Copyright, illusioni e realtà nel giornalismo italiano

Battaglie di retroguardia distraggono dalla missione più importante: convincere i cittadini a sostenerci

Mario Tedeschini-Lalli
11 min readNov 28, 2019

Qualche giorno fa La Stampa ha annunciato che non avrebbe più pubblicato i suoi articoli in licenza Creative Commons (quella che riserva “alcuni” diritti di riproduzione) e che tutti i materiali sarebbero stati pubblicati riservandosi “tutti” i diritti di riproduzione. In coda a ogni articolo è collocata ora l’indicazione già presente su tutti i maggiori quotidiani e nei loro siti: “© RIPRODUZIONE RISERVATA”.

L’occasione mi sembra utile per ricordare alcune circostanze storiche, economiche e legali che sembrano dimenticate o ignorate anche da molti “addetti ai lavori”. Spero contribuiscano a svelenire il clima che traspira dalle redazioni e dalle aziende editoriali italiane: sconforto, ira, voglia di menar le mani purchessia per rispondere a una crisi che non si era voluto vedere nelle sue reali dimensioni e — specialmente — nella sua reale natura. Un clima che rende più difficile intravedere una prospettiva per salvare la rilevanza del giornalismo professionale italiano.

Di che parliamo

Le Creative Commons sono strumenti giuridici usati per salvaguardare i diritti degli autori di opere d’ingegno consentendo al tempo stesso una modulazione della loro utilizzabilità da parte di terzi, secondo la formula “Alcuni diritti riservati”. Ogni autore può scegliere uno dei sei livelli di protezione: da quello più lasco (che consente di distribuire, modificare e utilizzare l’opera per crearne di proprie, anche a fini commerciali, purché sia dato credito all’autore per la creazione originale), a quello più rigido (che consente di scaricare l’opera e condividerla con altri purché sia attribuito il giusto credito all’autore, ma non di cambiarla o di utilizzarla commercialmente).

La decisione attuale cancella quella presa alla fine del 2015, quando La Stampa aveva adottato le Creative Commons, scegliendo la licenza più restrittiva, cosiddetta “BY NC ND”, che consentiva la riproduzione dell’articolo purché:
1) si indicasse correttamente il suo autore (BY)
2) la riproduzione non avesse scopo commerciale (NC)
3) il testo non fosse utilizzato per opere derivate (ND).
Analoga scelta era già stata fatta, da tempo, per i supplementi del quotidiano Tuttilibri e Tuttoscienze.

La decisione riallinea La Stampa alle scelte già operate dalla maggior parte dei quotidiani italiani, una mossa probabilmente inevitabile, visto che ormai anche la testata torinese fa parte del gruppo editoriale GEDI, insieme — tra gli altri — a La Repubblica, il Secolo XIX e molti altri quotidiani locali. In un contesto, per di più, che ha visto editori e redazioni sempre più ferocemente ingaggiare battaglia sul copyright, ritenuta essenziale per la salvaguardia dei prodotti giornalistici professionali.

La battaglia riguarda in primo luogo la nuova direttiva europea sul copyright e il suo articolo 15, che crea un nuovo diritto in capo agli editori da far valere nei riguardi dei grandi aggregatori online (in particolare Google), ma anche campi più tradizionali — diciamo al livello “micro”. Nei mesi scorsi, per esempio, si sono visti molti giornalisti battersi personalmente sui social contro l’abitudine di condividere immagini di articoli di giornale. Il giornalismo professionale costa, è la giusta considerazione, e riprodurre gli articoli sottrae risorse necessarie che ci sarebbero se l’articolo fosse letto acquistando una copia del giornale in edicola o abbonandosi online.

Questo ragionamento, apparentemente logico, contiene alcune importanti fallacie, ma prima di tutto immagina una realtà giuridica diversa da quella in atto.

Diritti di riproduzione e giornali in Italia

Partiamo da come La Stampa ha spiegato la sua ultima scelta [sottolineature mie]:

“La decisione di applicare una licenza d’uso Creative Commons anziché il tradizionale Copyright era maturata quando il giornale riconosceva nella diffusione online della testata un valore e un’opportunità, ritenendo che il digitale e la natura dell’opera al tempo della sua riproducibilità tecnica obbligassero a rivedere i paradigmi precedenti del copyright”.

Occorre chiarire subito che per i giornali non c’è alcun “tradizionale copyright” cui riferirsi, certamente non in Italia. Non ci sono dunque “paradigmi precedenti del copyright”, cui tornare.

Il testo di riferimento è all’attuale primo comma dell’articolo 65 della legge 633/41:

Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato.

L’articolo 65 fa significativamente parte del “Capo V” della legge sul diritto d’autore, intitolato originariamente “Utilizzazioni libere” e ribattezzato “Eccezioni e limitazioni” nella versione attuale.

La legge 633 del 1941 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 luglio 1941

Cioè, per quanto possa apparire strano, la legge italiana sul diritto d’autore prevede che in via normale gli articoli di giornale NON siano protetti, prevede cioè che siano liberamente riproducibili, purché se ne indichino l’autore e la testata dalla quale sono ripresi. Solo come eccezione la legge prevede il divieto di riproduzione, tant’è che la “riserva di riproduzione” deve per questo essere esplicitamente indicata.

Un esempio tipico di questo uso saltuario ed eccezionale della riserva di riproduzione lo troviamo sul Corriere della Sera del 5 maggio 1915. Il giornale di Albertini “anticipava” l’orazione che Gabriele d’Annunzio avrebbe fatto quel giorno a Quarto per indurre l’Italia alla guerra (ah, le anticipazioni, altro strumento di commercializzazione editoriale…), ma per farlo fu costretto a inserire la riga “Proprietà letteraria-Riproduzione interdetta” in fondo all’articolo, perché tutto il resto del giornale che ospitava lo scritto NON era sottoposto a copyright.

La pagina 3 del Corriere della Sera del 5 maggio 1915, con il testo del “discorso di Quarto” di Gabriele D’Annunzio. Per la segnalazione di questa circostanza editoriale ringrazio Francesco Piccinelli Casagrande.

Ci sono molte ragioni storiche per le quali la norma è così concepita, per esempio il fatto che negli anni Quaranta, quando la legge fu redatta, i giornali erano assai meno “autoriali” di oggi e certamente un prodotto d’ingegno meno complesso. Non esisteva, inoltre la distribuzione online che rende una notizia pubblicata “oggi” raggiungibile e sfruttabile economicamente anche “domani”. E tuttavia la norma risponde anche alla necessità di riconoscere alle notizie, alle informazioni giornalistiche uno status diverso da altre “opere d’ingegno” (brani musicali, romanzi ecc.), per la loro intrinseca caducità e per la necessità sociale ed editoriale di diffondere al massimo le informazioni.

Quali che siano le ragioni originali della norma o le discussioni intorno alla opportunità di modificarla, è certo che la legge italiana non prevede alcun “tradizionale copyright” per i giornali, piuttosto si potrebbe dire una “tradizionale libertà di riproduzione”, sia pur con eccezioni.

E infatti i quotidiani italiani hanno da sempre fatto largo uso di informazioni e materiali pubblicati da altre testate. Nell’Ottocento e nel primo Novecento le colonne dei quotidiani erano pieni di notizie direttamente assunte da altri giornali. Anche oggi spesso è così, specialmente per quanto riguarda la stampa estera.

D’altra parte, fino a pochi, pochissimi anni fa i giornali italiani erano pubblicati senza alcuna “riserva di riproduzione”.

La situazione è cambiata solo nel luglio del 2012 e per uno scopo ben preciso: gli editori aderenti alla FIEG hanno deciso di farsi pagare le copie dei “loro” articoli, riprodotti e rivenduti ogni mattina dalle società di rassegne stampa a imprese, enti pubblici e singoli. Naturalmente, per poter rivendicare diritti di riproduzione, questi diritti andavano prima affermati, il che è stato fatto apponendo la ormai famosa dicitura “Riproduzione riservata” alla fine di ogni articolo.

Parliamo di centinaia e centinaia di articoli riprodotti e diffusi a pagamento ogni giorno, senza che sia riconosciuto alcun corrispettivo alle aziende editoriali che li hanno prodotti. Sembrava una cosa ovvia pretendere che questa attività cessasse o fosse effettuata solo su licenza e tale a me sembra ancora, ma purtroppo non è ovvia per niente.

La FIEG è riuscita inizialmente a stringere accordi con alcune società di rassegna stampa, ma le due più grandi che coprono circa il 70% del mercato (Eco della Stampa e Data Stampa) si sono rifiutate. I contendenti sono finiti in tribunale e a giugno 2019 la Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, ha sostanzialmente riconosciuto il diritto delle rassegna stampa di continuare a copiare e a diffondere gli articoli prodotti e pubblicati da altri senza pagare un solo euro, purché le rassegne siano destinate unicamente ai propri clienti.

Dal testo della paradossale sentenza emergono motivazioni anche contraddittorie (tanto da far supporre che la vicenda giudiziaria possa non fermarsi qui), ma esso è utile a comprendere che non è possibile in Italia alcun automatico riferimento al “copyright” quando si parla di giornali. I diritti d’autore morali ed economici, per non parlare dei “diritti connessi” solo recentemente riconosciuti dalla legislazione europea agli editori, sono frutto di circostanze politiche, economiche e tecnologiche, non sono un “dato di natura”.

Sarebbe quindi opportuno che editori e giornalisti ragionassero sulla opportunità di concentrare tante forze e tante passioni su questo punto e che, comunque, fossero più prudenti quando parlano in questi casi di “furto” o “saccheggio”. Tanto più che oltre alle considerazioni giuridiche esistono anche considerazioni di altra natura che sconsigliano una ossessiva insistenza sul “copyright” come strumento per invertire il declino dell’editoria giornalistica intesa come settore industriale.

Diritti di riproduzione e mercato digitale

Dietro alla passione con la quale editori e giornalisti fanno appello a una radicale applicazione del copyright, si nascondono infatti alcune insidie.

Scarsità e abbondanza. Una delle caratteristiche più evidenti dell’universo digitale è la distruzione della “economia della scarsità” in campo mediale. In precedenza, per qualunque relazione informativa occorreva passare dal “collo di bottiglia” dei giornali, per produrre i quali era necessaria una complessa e assai costosa organizzazione industriale. I giornali, in un certo senso, presidiavano un passaggio obbligato ed erano organizzati per lucrare questa rendita di posizione.

Tutto questo non c’è più e nella misura nella quale sembrino riproporsi nuovi “percorsi obbligati”, incarnati per esempio nelle grandi piattaforme digitali, essi funzionano su basi completamente diverse, in particolare sulla creazione, raccolta e sfruttamento dei dati.

Sotto a tanti appelli a rispettare il copyright e a non “saccheggiare” i giornali, sembra invece proporsi l’idea che così facendo sia possibile riproporre una scarsità relativa che rianimi un mercato che sta morendo. Si tratta di una illusione, specialmente per quanto riguarda la stampa cosiddetta generalista.

Pubblici diversi. Corollario di questo modo di intendere il giornalismo è la crescente abitudine di alcuni giornalisti di lanciare un articolo con un post social, magari corredato da una foto della pagina con il titolo, invitando il pubblico ad andare “in edicola” per leggerlo. La cosa è problematica per almeno due ragioni.

Non sono a conoscenza di studi che analizzino la permeabilità del pubblico incrociato dai giornalisti sui social con quello che in effetti va in edicola [graditi link per materiali mi siano sfuggiti, grazie], ma ogni evidenza empirica indica che un tweet o un post Facebook che invitino a staccarsi dallo computer o dallo smartphone, interrompere ciò che si sta facendo, cercare un’edicola, acquistare una copia del giornale e leggere finalmente l’articolo suggerito, sia destinato all’insuccesso.

I pubblici dei prodotti stampati e di quelli digitali sono diversi, a volte anche radicalmente diversi e, nella misura in cui coincidano, si comportano in modo diverso a seconda delle circostanze di fruizione. Le risorse umane e di tempo che pure vengono spese per questa sorta di marketing-fai-da-te sarebbero meglio impiegate in modo differente, per esempio sfruttando la “permanenza nel tempo” dei materiali digitali, rilanciandoli nei giorni e nelle settimane successive alla pubblicazione.

Spesso infatti quegli stessi articoli che si invita perentoriamente ad andare a comprare “in edicola” esistono anche in versione digitale e l’offerta di un link potrebbe avere il doppio vantaggio di invitare l’utente ad acquistare senza lasciare l’ambiente dove si trova (se l’articolo è sotto paywall) e — specialmente — di sfruttare l’articolo nel tempo. Una delle cose più irritanti dei post “andate in edicola” su Facebook è che suppongono erroneamente che il post sia letto grossomodo nel momento in cui il giornalista lo pubblica. Il più delle volte, invece, quel post è visto nei giorni successivi, quando anche andando “in edicola” quel bravo cittadino non avrebbe modo di acquistare alcun giornale, mentre potrebbe leggersi tranquillamente l’articolo in formato digitale quando gli pare — senza danneggiare minimamente la diffusione del giornale stampato che è già conclusa.

Ricavi vs. influenza. Tradizionalmente l’industria editoriale d’informazione aveva due missioni: la massimizzazione dell’influenza sociale e la massimizzazione dei ritorni economici. Nel contesto del “giornalismo industriale” le due missioni si rafforzavano a vicenda: più copie si diffondevano (=crescente influenza sociale), più lettori si potevano vendere agli inserzionisti pubblicitari (=crescenti ritorni).

L’universo digitale ha completamente smontato questo modello, facendo divergere le due missioni.

  • E’ l’epoca d’oro della “missione sociale”: mai il giornalismo aveva avuto la possibilità di raggiungere tanta gente in tanti modi diversi, in ogni momento.
  • E’ al tempo stesso un momento tragico per la “missione economica”: la pubblicità ha preso vie e messo a punto strumenti per fare sostanzialmente a meno delle imprese editoriali.

Siamo tutti alla ricerca di nuove possibili modelli per sostenere economicamente il giornalismo professionale, questa fondamentale ricerca non deve però far dimenticare ai giornalisti — specie a loro! — che esiste anche l’altra missione. E’ un difficile esercizio di ottimizzazione (come sfruttare al massimo le potenzialità di diffusione e di influenza sociale, senza danneggiare la possibilità di trovare fonti di ricavo che rendano possibile produrre il giornalismo), ma va tentato senza perdere di vista il primo termine della questione, sfruttando al massimo le opportunità che in questo senso offre il digitale.

Attenzione sviata. L’insistenza sul copyright come punto centrale della “resistenza” delle imprese editoriali comporta anche un problema di tipo, per così dire, psicologico. Rafforza l’idea che i problemi e le relative soluzioni si trovino all’esterno delle aziende e delle redazioni, svia l’attenzione, rende più difficile concentrare tempo ed energie alla ricerca delle possibili soluzioni al nostro interno.

Come ricordava già dieci anni lo studioso americano Clay Shirky , citando un giornalista americano: “Quando un ragazzino di 14 anni può mandare per aria i tuoi affari a tempo perso, non perché ti detesti ma perché ti ama, i problemi si fanno seri”. Si riferiva alla scoperta di un adolescente che, agli albori delle reti digitali aperte al pubblico, ricopiava a mano e condivideva su Usenet la rubrica di un noto articolista che apprezzava particolarmente.

Era il 1993, 26 anni orsono.

Il rischio nostalgia

Vuol dire che non dobbiamo cercare di ottenere qualche risorsa anche dallo sfruttamento dei diritti di riproduzione, quando ci siano? Ovviamente no, meglio un euro in più che un euro in meno, di questi tempi.

Occorre però eventualmente farlo avendo ben chiaro che si tratta, comunque, di risorse limitate (anche molto limitate) e che il perseguimento di quelle risorse deve essere contemperato dalla necessità di mantenere e accrescere l’influenza sociale – scopo ultimo del giornalismo – e di ricercare altre più realistiche fonti di ricavo compatibili con le logiche dell’universo digitale.

La nostalgia può fare brutti scherzi, specie se si applica a inesistenti età dell’oro. Può creare la convinzione che il prodotto stampato (“Andate in edicola!”) sia quello sul quale occorra concentrarsi, nonostante che ogni possibile statistica storica e attuale dimostri che esso è destinato ad esaurirsi, con maggiore o minore velocità.

«E allora, che facciamo?». Non c’è una risposta sola, non esiste e non esisterà un modello di affari che semplicemente si sostituisca a quello che conoscevamo per il giornali. Da tempo si discutono e si sperimentano diversi modelli e, specialmente, diverse logiche per far sopravvivere il giornalismo professionale nell’era dell’abbondanza informativa. Per la maggior parte implicano un differente rapporto tra il giornalista, la redazione e i cittadini, tale che i cittadini riconoscano nel loro interesse sostenere il prodotto di una certa redazione. Non solo acquistarne i “contenuti” in esclusiva.

La difesa ad oltranza del copyright in quanto tale, persino oltre la ratio della legge italiana, consola chi pensa di poter tornare a un sistema strutturalmente non più esistente e mantiene l’attenzione concentrata sui “contenuti”, invece che sulle “relazioni” da costruire nella società.

Se non invertiamo questo punto di vista, resteremmo asserragliati a difendere il nostro fortino, senza accorgerci che gli indiani passano oltre, ritornano coi loro bufali, giocano, fanno l’amore, si fanno la guerra tra di loro. E ogni tanto, di domenica, portano i bambini a vedere quel che resta dei cavalleggeri asserragliati nel fortino, dove ormai si sono mangiati anche i cavalli.

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Mario Tedeschini-Lalli

Antico giornalista. Consulente di editoria digitale. Docente di Giornalismo digitale. Studioso di Storia contemporanea. Blog (2003/18): http://bit.ly/blogmario