Il giornalista nell’universo digitale e le sue fonti: 3/ Di suole e di scarpe digitali

Cronaca e raccolta delle informazioni

Mario Tedeschini-Lalli
15 min readJul 21, 2019

Nei mesi scorsi sono stato cortesemente invitato a preparare una serie di video per un corso online di aggiornamento dell’Ordine dei giornalisti sul “problema delle fonti”, che è ora disponibile attraverso la piattaforma SIGEF così descritto:

Fonti nuove e vecchie, regole antiche e moderne applicazioni. Il giornalista nell’universo digitale esercita il suo ruolo innanzitutto applicando il metodo che gli è proprio e lo rende riconoscibile: saper risalire l’albero delle informazioni e offrire al cittadino gli strumenti per farlo, riconoscere le fonti, citarle, verificarle, proteggerle. Essere ancora testimone, raccontare in modo credibile e trasparente i fatti. A questo si aggiungono poi competenze nuove: l’uso delle fonti aperte, le potenzialità offerte dai media sociali, le enormi risorse offerte dai dati. Un corso aperto al dibattito, ricco di spunti, aneddoti, cold cases per capire come l’universo digitale e la disintermediazione possano offrire opportunità e vantaggi competitivi ai giornalisti in grado di approfittarne.

Alcune persone mi hanno chiesto i testi di quei video, pubblico qui i miei appunti originali utilizzati nella loro grandissima parte per il corso, dopo qualche taglio per renderli della durata giusta (grazie ai colleghi della produzione!). Il corso si intitola “Il giornalista nell’universo digitale e l’albero delle fonti” ed è diviso in quattro parti. La terza parte la trovate qui sotto, le altre sono linkate.

  1. L’albero della informazioni
  2. Controllare anche la mamma
  3. Di suole e di scarpe digitali
  4. Proteggere le fonti, proteggere il giornalismo
Di Alex Ellinghausen, Shoe-leather journalism — David Wroe files his report on the New England by-election from the road (literally) in Armidale, NSW, 3 .12.2017. Tutti i diritti riservati, riprodotta col consenso dell’autore.

3/ Di suole e scarpe digitali

Ne abbiamo accennato già nella seconda parte , giornalisti non possono che essere digitali, perché digitale è il mondo nel quale viviamo e che dobbiamo esplorare, comprendere e raccontare.

Uno degli errori cognitivi più importanti che fanno i politici e spessissimo anche gli editori e i giornalisti è di considerare le reti digitali, internet, le grandi piattaforme alla stregua di “media. E’ ovvio che c’è una importante funzione mediale, ma in realtà le reti digitali sono la struttura portante della nostra vita di relazione.

E questo rende le cose più difficili da comprendere e gestire — ma anche molto più affascinanti!

Nelle unità precedenti abbiamo fatto anche una affermazione un po’ paradossale (ma neppure tanto se ci pensate bene…): se nel mercato oggi ci fosse spazio per un organo di informazione scritto con la penna d’oca sulla pergamena, un editore serio e dei giornalisti con voglia di fare dovrebbero naturalmente produrre un bel giornale di pergamena.

Quei giornalisti, però, per esplorare e raccontare il loro mondo, prima di prendere la loro penna d’oca, dovrebbero utilizzare tutti gli strumenti digitali a loro disposizione. Ma non solo: dovrebbero aver compreso fino in fondo la cultura digitale, che è — semplicemente — la cultura del mondo nel quale tutti noi viviamo.

Nelle molte redazioni che ho frequentato in oltre quattro decenni di vita professionale, ci sono due o tre frasi fatte che mi sono sentito ripetere alla noia. Una di queste dice con una qualche saggezza che il giornalismo si fa consumando le suole delle scarpe

Solo che questa apparente ovvietà è stata utilizzata anche per criticare — senza conoscerlo bene — il giornalismo digitale.

A parte il fatto che anche prima delle reti digitali il giornalismo si faceva anche con il telefono, gli archivi, le Guide Monaci e tante altre cose, molti critici si sono costruiti il pupazzetto del — come possiamo chiamarlo?… — il pupazzetto del “giornalista copia-e-incolla” e si sono sentiti più sicuri infilzando il pupazzetto con tanti belli spilloni polemici. Una sorta di rito vudù che li aiutava ad esorcizzare la possibilità che dietro ai loro pupazzetti copia-e-incolla ci potessero essere anche dei giornalisti che facevano con serietà, fatica e risultati originali il loro lavoro di cronisti.

Ecco, dobbiamo essere — tutti! — cronisti del mondo digitale, perché il mondo digitale è il nostro mondo.

  • Il mondo digitale, come quello fisico, è fatto — anche — di luoghi (i “siti”…), di piazze (le “piattaforme sociali”), di vie e strade (i “link”)…
  • Il cronista digitale — ripeto: deve essere digitale anche il cronista del nostro ipotetico giornale di pergamena — come il tradizionale cronista di un tempo, deve camminare per le strade del suo mondo, incontrare le persone, scoprire fonti e documenti, metterli a confronto, ascoltare, interrogare, osservare.
  • In parole povere: deve anche lui consumare le suole delle scarpe… deve consumare le suole delle sue scarpe digitali!

E’ vero che da qualche anno che i giornalisti italiani adoperano i social media, abitano le grandi piazze delle piattaforme digitali, ma ancora in modo limitato. Nell’anno di grazia 2019, i media sociali sono utilizzati dai giornalisti italiani prevalentemente come:

  • strumento di distribuzione dei materiali propri o della propria testata
  • luogo dove osservare un po’ passivamente lo sviluppo della giornata (che cosa dicono i politici, ad esempio…)
  • modo per discutere tra di loro

…anche come modo per discutere con i cittadini/utenti — ma assai di meno.

In realtà i media sociali,o meglio l’intero insieme delle relazioni umane che si intrecciano in campo digitale sono anche campo di indagine, strumenti e luogo di cronaca.

Occorre, cioè, che anche all’interno del mondo digitale i giornalisti siano in grado di individuare e sviluppare delle fonti, possano valutarle e utilizzarle.

Non si tratta di usare gli enormi strumenti che ci mette a disposizione la rete solo per verificare le informazioni che ci giungono, ma anche per scoprire le informazioni stesse, per ricercarle attivamente.

***

La prima questione importante, in questo senso, è riconoscere — come dire? — che non siamo soli. Accanto e insieme a noi vivono nella rete, pubblicano nella rete e si esprimono nella rete individui e organizzazioni che non hanno alcuna intenzione di fare del giornalismo (neppure quel fantasma che 20 anni fa passava sotto il nome di citizen journalism…), semplicemente creano informazione.

Il giornalista professionale questa informazione deve saperla vedere, scoprire, aggregare e organizzare in un insieme di senso.

Qualche anno fa a questa informazione è stato dato il nome di User Generated Content, meglio noto con il suo acronimo: UGC…. cioè: contenuto generato dagli utenti. Il nome denuncia una visione un po’ vecchia delle relazioni digitali, prima che ci si rendesse conto che sul piano strutturale non c’è alcuna distinzione tra il post su Facebook di mia nipote o quello di una collega del Corriere della Sera (la differenza può essere nella qualità dei contenuti generati, cioè — come abbiamo già detto — nel metodo seguito per selezionarli e produrli), e tuttavia questo brutto nome ancora resiste e per ragioni di pura comodità lo utilizzeremo pure noi.

Allora… che cosa può e che cosa deve fare il giornalista di fronte allo UGC, al contenuto generato dagli utenti, cioè dai cittadini? E’ certo che non può ignorarlo ed è altrettanto certo che non può semplicemente rilanciarlo.

Lo UGC, o meglio il contenuto generato da persone e enti non giornalistici, è infatti una fonte, un insieme di fonti e come tale va gestito. Imparando a interrogarlo e imparando a verificarlo.

Ogni singolo giornalista dovrebbe sentire il dovere di valutare e verificare un contenuto trovato in rete prima di usarlo — per un articolo, un servizio o anche solo un retweet… E tuttavia non sempre ogni giornalista possiede tutti gli strumenti necessari.

Per questo molti grandi organi di stampa internazionali hanno creato vere e proprie strutture redazionali dedicate che hanno l’unico scopo di analizzare e verificare i materiali prodotti dai cittadini: possono essere foto postate su Facebook, video caricati su YouTube o anche materiali inviati direttamente dall’utente alla testata.

Tra questi c’è, per esempio, la BBC News, che ha creato già diversi anni fa uno UGC Hub. E’ formato da una ventina di giornalisti a tempo pieno, la loro missione: “prima che qualunque elemento UGC appaia sua una piattaforma della BBC, deve essere controllato o verificato”. Cioè: ogni redazione giornalistica, ogni programma e — tanto più — ogni singolo giornalista non può utilizzare materiali trovati sui media sociali o ricevuti dai cittadini se prima quei materiali non sono stati valutati e approvati dal desk specializzato, dallo UGC Hub.

Ecco come la mette la Guida dell’UGC prodotta dalla BBC (pdf):

“Il punto centrale è che dovremmo mirare a trattare le immagini, gli audio e i video forniti da persone del pubblico nello stesso modo con il quale trattiamo qualunque altro materiale che come giornalisti ci capita in mano”.

Già mi sembra di sentire i mugugni di qualcuno: “Noi non siamo la BBC…”, “Meglio qualche cronista di più per strada…”, “La cosa importante è casomai correggersi se abbiamo fatto un errore…”

So bene che molte redazioni hanno anche meno di venti giornalisti in tutto, figuriamoci se possono dedicarne tanti allo UGC e, tuttavia, la funzione non è eliminabile. Ogni redazione, ogni direzione, ogni giornalista (nel caso dei freelance) deve organizzarsi perché una parte del proprio lavoro sia dedicato a questa funzione. Direi proprio che è ineliminabile.

D’altra parte — come abbiamo già detto nelle sezioni precedenti — questa specifica funzione giornalistica è tra quelle che può fare la differenza tra il nostro lavoro e il prodotto di non-giornalisti, è una delle condizioni necessarie anche se non sufficienti perché qualcuno ci preferisca e perché il nostro mestiere sia di conseguenza retribuito.

Occorrerà ripensare la distribuzione delle nostre risorse (ripeto: anche individuali), tagliare quelle impiegate per produrre materiali che in fondo possono essere prodotti anche da altri, e investirne su prodotti meno comuni — per esempio su prodotti qualitativamente più affidabili.

La funzione giornalistica di scovare, selezionare e verificare le fonti digitali dei materiali che compaiono sui social media è così importante che ha dato vita a imprese giornalistiche completamente nuove… per esempio Storyful!

Se volessimo paragonare la redazione di Storyful a un prodotto giornalistico pre-digitale, potremmo parlare di una “agenzia di stampa”, cioè di una redazione che produce informazione per altre redazioni, non direttamente per il pubblico.

La redazione di Storyful è formata da una settantina di giornalisti divisi in sei redazioni sparse nel globo per sfruttare e coprire tutti fusi orari: Dublino, New York, Los Angeles, Londra, Hong Kong e Sydney.

Storyful tiene sotto controllo i media sociali 24 ore al giorno e sette giorni su sette…

  • scopre i materiali che possono essere utili alle redazioni per raccontare eventi di attualità
  • ne verifica la fonte e i contenuti
  • li offre alle testate abbonate al servizio
  • funziona come intermediario commerciale per la concessione dei diritti di riproduzione (anche i cittadini hanno diritto a un compenso! — ne parleremo nella quarta sezione…)

Intorno a questo servizio primario per le redazioni, Storyful ha ora costruito altri prodotti — come peraltro da sempre fanno anche le agenzie di stampa tradizionali. Storyful in particolare offre servizi di Social Media Intellingence, per aziende ed enti.

Per un antico giornalista di agenzia, quale io sono stato, è una bella notizia :-)

****

Tutto questo — ne abbiamo già accennato — è possibile perché il mondo digitale offre una quantità di informazioni che anche solo all’inizio degli anni Duemila era impensabile. E’ una grandissima collezione di fonti aperte.

L’espressione fonti aperte era ed è prevalentemente usata nei sistemi di intelligence, si riferisce alle informazioni non segrete che un servizio di intelligence seleziona e correla per fornirle poi ai propri referenti. Un tempo erano tratte da pubblicazione scientifiche, giornali, trasmissioni radio-televisive ecc… Nei dossier degli archivi della CIA resi pubblici e ricercabili, si trovano ad esempio fotocopie di articoli accanto a rapporti di fonti anonime e di agenti segreti.

Gli strumenti che abbiamo a disposizione consentono oggi anche ai comuni cittadini di utilizzare le fonti aperte, cioè la raccolta, la verifica e la correlazione di informazioni disponibili a tutti senza necessariamente forzare casseforti, pagare informatori, intercettare comunicazioni… o, nel caso del giornalismo, incontrarsi a notte fonda in un garage deserto, come fece Bob Woodward con la sua fonte “Gola profonda” nello scandalo Watergate ;-)

Certo, in questi casi, i giornalisti devono attivamente ricercare le informazioni e non limitarsi a riceverle ed eventualmente rilanciarle — devono, appunto, consumare le suole delle loro “scarpe digitali”.

Ecco un piccolo ma interessante esempio, dove si vede — tra l’altro — che l’analisi delle immagini si accoppia anche con… fonti umane:

  • luglio 2018: gira in rete un video che mostra due donne e due bambini bendati uccisi da soldati; Amnesty International afferma che si tratta dell’esercito camerunense; il governo camerunense smentisce e sostiene — originali! — che si tratta… di fake news.
  • Africa Eye, una redazione di giornalismo investigativo open source della BBC decide di capire che cosa è successo
  • Prima si sono chiedono dove fosse stato girato il video.

— Nei primi 40 secondi del video si intravedono delle montagne sullo sfondo… amici camerunesi offrono una ipotesi sulla località… i giornalisti controllano su Google Earth e scoprono che si tratta di una regione nel Nord del Camerun, dove è in corso un conflitto coi guerriglieri islamici di Boko Aram.

— Conoscendo il luogo, i giornalisti possono stabilire esattamente il punto dell’eccidio, confrontando alcuni elementi del video (case, gruppi di alberi…) con immagini satellitari pubblicamente disponibili

  • Seconda domanda: quando?

— Il muro di cinta di un edificio che compare nel video non era stato ancora costruito in una immagine satellitare scattata nel 2014: quindi la sparatoria è avvenuta dopo il 2014

— Un altro edificio che si vede nel video non esisteva in una immagine scattata nel 2016, ergo: la sparatoria è avvenuta prima del 2016

— La strada sterrata del video appare priva di fango, quindi doveva essere la stagione secca: tra gennaio e aprile

— C’è il sole, i militari proiettano le loro ombre sulla strada, sono quasi delle “meridiane umane” e con una semplice formula matematica è possibile stabilire la posizione del sole e in questo modo restringere la possibilità delle date: tra 20 marzo e il 15 aprile 2015.

  • Terza domanda: chi?

— Il governo aveva sostenuto che non erano soldati camerunensi, che avevano la mimetica sbagliata e non erano armati. I giornalisti hanno invece scoperto

  1. che un mitra imbracciato da un militare nel video era un mitra serbo piuttosto raro, usato dalle forze armate del Camerun
  2. che su Facebook molti soldati camerunensi avevano postato foto da quel posto con quel tipo di tute mimetiche
  3. che non erano armati perché lì vicino c’era una base — base che era mostrata in un servizio televisivo girato nel 2015…

— Il governo ad agosto ha ammesso la responsabilità e ha arrestato sette militari

— La squadra investigativa è riuscita anche a scoprirne i nomi:

  1. nel video qualcuno chiama uno degli assalitori col soprannome di “Tchothco
  2. un profilo Facebook collega quel soprannome a un soldato chiamato Cyriaque Bityala
  3. anche i nomi di altri due sono stati scoperti e confermati dai giornalisti… con una combinazione di analisi delle immagini e di conferme da una fonte all’interno dell’esercito camerunense.

Mandla Chinula della International Journalism Network (IJNet), ha intervistato i giornalisti che se ne sono occupati. Ecco alcuni consigli per i colleghi che vogliano fare cose analoghe:

  • Ci sono strumenti a disposizione di chiunque, Google Earth, per esempio, ma anche Sentinel Hub, (un sistema basato su cloud per l’analisi delle foto satellitari), e SunCalcc, una applicazione che mostra i movimenti del sole e le fasi solari in ogni giorno dell’anno e che ha consentito di determinare l’ora del massacro.
  • Seguite, leggete, guardate quelli che già fanno questo lavoro. Per esempio, lo stesso Africa Eye, la squadra del New York Times Visual Forensics (qui l’analisi di un video che svela come le persone che attaccarono dei manifestanti contro il presidente turco in visita a Washington fossero proprio le guardie del corpo del presidente) e, in particolare, quelli di Bellingcat.

Ecco, la storia di Bellingcat è una di quelle che merita di essere raccontata.

Tutto è cominciato nel 2012, nella casa dove Eliot Higgins, un ragioniere inglese disoccupato, si occupava della figlia piccola. Higgins aprì un blog sulla guerra civile siriana appena scoppiata. In particolare analizzava nel dettaglio le centinaia di video caricati su YouTube, li localizzava, esaminava le caratteristiche delle armi utilizzate. Così facendo è arrivato a dimostrare che l’esercito siriano usava bombe a grappolo e armi chimiche. Sua, in particolare fu l’identificazione delle postazioni governative siriane come fonte dell’attacco chimico di Ghouta.

Il suo lavoro fu utilizzato da importanti testate come il New York Times, da governi e organizzazioni non governative. Nel 2014 Higgins — ormai a tutti gli effetti un giornalista — ha lanciato Bellingcat, una piattaforma per la pubblicazione dei risultati delle ricerche su avvenimenti in zone di guerra da parte di professionisti e comuni cittadini.

Finanziato per metà da donazioni private e da fondazioni, per metà dalla attività di formazione che fa in molte parti del mondo, Bellingcat nel 2018 contava quattro dipendenti a tempo pieno, più Higgins e una sessantina di collaboratori.

Tra i suoi successi:

****

L’ultimo consiglio importante dei colleghi di Africa Eye a chi vuole provare ad analizzare le informazioni delle fonti aperte è di non fare tutto da soli:

“C’è una vera e propria comunità di analisti delle fonti aperte, molti specialisti in aree diverse — dice uno di loro, Sam Adamson — La loro collaborazione è essenziale per questo tipo di inchieste… tutti i risultati, naturalmente sono verificati dalla BBC in modo indipendente”.

Alla inchiesta sui soldati del Camerun, per esempio, hanno preso parte tre giornalisti della BBC e un gruppo di circa 15 altri collaboratori, organizzati in un gruppo Twitter e in un canale di Slack — una piattaforma di lavoro collaborativo. Anche alcuni ricercatori di Amnesty International hanno contribuito alla indagine.

Questa è una delle cose straordinarie che il vivere nell’universo digitale offre ai giornalisti di oggi: interi oceani di cittadini, di esperti, di altri colleghi che sono disposti a dare una mano alla tua inchiesta.

Prima di andare avanti fatemi rispondere a una obiezione che mi sembra di sentire anche se non siete presenti in questo momento: “Ma come si fa a fare una inchiesta con altri? E allora l’esclusiva??!”

A parte il fatto che l’esclusiva è molto sopravvalutata ;-) (specie in questo frangente storico quando forse le testate giornalistiche dovrebbero osare maggiore collaborazione, per condividere le risorse sempre più scarse), ma nessuno ti obbliga di far tutto alla luce del sole — il canale Slack della BBC mica è pubblico.

E tuttavia può anche essere ragionevole ricorrere alla collaborazione dei cittadini qualunque in un canale aperto… David Farehnthold del Washington Post ci ha vinto un Pulitzer.

Nel 2016, durante la campagna per le presidenziali americane cominciò a indagare sulla beneficenza che Donald Trump sosteneva di aver fatto. Scoprì che molte delle donazioni annunciate non erano mai state effettuate e fece la cronaca della sua inchiesta pubblicando su Twitter elenchi scritti a mano di centinaia di organizzazioni non profit da controllare per verificare se avessero ricevuto soldi.

Pubblicarli su Twitter sperava gli servisse a “stanare” Trump e la sua squadra che non volevano rispondere alle sue domande. Nel frattempo, però, i suoi follower su Twitter passarono in pochi mesi da meno di cinquemila a oltre sessantamila e questo si rivelerà prezioso.

A un certo punto, parlando con una associazione benefica che aveva ricevuto 20.000 dollari da Trump, scopre che quei soldi erano in realtà il pagamento per un ritratto di Trump medesimo vinto a un’asta benefica da sua moglie Melania… ma pagato non dai signori Trump, bensì dalla Fondazione Trump.

La legge americana proibisce che fondazioni benefiche usino i loro fondi a fini commerciali e Farenthold si mette a caccia del ritratto: se lo avesse trovato appeso in uno dei vari alberghi del candidato (utilizzato cioè a scopo commerciale), avrebbe provato che i soldi della Fondazione erano stati usati in modo illegale.

Centinaia di follower Twitter si sono scatenati, esaminando le foto e i video postati dai clienti degli alberghi sui vari siti di recensione — ma nel corso della ricerca scoprì l’esistenza di un secondo ritratto di Trump, di autore diverso, anch’esso acquistato con i soldi della Fondazione. Dopo un nuovo appello ai follower unapensionata di Atlanta lo scopre nelle foto di un albergo della Florida postate da un cliente. Un conduttore televisivo della Florida vede il tweet, ne parla in trasmissione, poi prende la macchina va all’albergo, prende una stanza, comincia a girare dentro all’albergo, poi chiede una cameriera… e trova il ritratto appeso nel bar. Foto del ritratto e tweet del conduttore a Fahrenthold: lo ho trovato.

La storia del ritratto non è l’unica ragione del premio Pulitzer, il premio lo ha ottenuto per la lunga inchiesta durata otto mesi. Certo, Donald Trump fu eletto lo stesso — ma due anni dopo la sua Fondazione benefica è stata chiusa.

A chi pensasse che queste cose si possono fare solo parlando di grandi guerre e di grandi Paesi, possiamo indicare qualche piccolo, addirittura piccolissimo esempio nostrano di giornalismo collaborativo.

Nel 2014 il quotidiano abruzzese Il Centro pubblicò la foto di un gruppo di ragazzini straccioni in mezzo alle rovine, presa da un volontario americano che nell’immediato dopoguerra era andato nella valle dell’Aventino per aiutare a ricostruire i paesi distrutti… un nipote di San Francisco ora voleva sapere se qualcuno di quei bambini fosse ancora vivo.

Ma il Centro non è l’unico organo di informazione di quelle terre, come non lo sono i quotidiani concorrenti, i siti web d’informazione, i telegiornali… ci sono anche — per esempio — i gruppi Facebook che raccolgono i cittadini di migliaia di località di tutta italia…

Tra questi esiste anche il gruppo “Nativi di Colledimacine”. Un gruppo, che tiene insieme su Facebook qualcuna delle 193 persone che ancora effettivamente vivono a Colledimacine con gli emigrati in altre città,regioni e anche continenti. La foto del Centro è stata rilanciata, è cominciata un’animata discussione e alla fine hanno convenuto che sì, quello era Colledimacine e riconoscevano anche alcuni dei presenti. Uno di quei bambini era ancora in vita e abitava proprio là.

Dopo qualche giorno il giornale andò a intervistare il vecchio-bambino :-)

— —

Vai alle altre parti del corso:

  1. L’albero della informazioni
  2. Controllare anche la mamma
  3. Di suole e di scarpe digitali
  4. Proteggere le fonti, proteggere il giornalismo

--

--

Mario Tedeschini-Lalli

Antico giornalista. Consulente di editoria digitale. Docente di Giornalismo digitale. Studioso di Storia contemporanea. Blog (2003/18): http://bit.ly/blogmario