Il giornalista nell’universo digitale e le sue fonti: 4/ Proteggere le fonti proteggere il giornalismo
Nuove rischi e nuovi problemi per nuove opportunità
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Nei mesi scorsi sono stato cortesemente invitato a preparare una serie di video per un corso online di aggiornamento dell’Ordine dei giornalisti sul “problema delle fonti”, che è ora disponibile attraverso la piattaforma SIGEF così descritto:
Fonti nuove e vecchie, regole antiche e moderne applicazioni. Il giornalista nell’universo digitale esercita il suo ruolo innanzitutto applicando il metodo che gli è proprio e lo rende riconoscibile: saper risalire l’albero delle informazioni e offrire al cittadino gli strumenti per farlo, riconoscere le fonti, citarle, verificarle, proteggerle. Essere ancora testimone, raccontare in modo credibile e trasparente i fatti. A questo si aggiungono poi competenze nuove: l’uso delle fonti aperte, le potenzialità offerte dai media sociali, le enormi risorse offerte dai dati. Un corso aperto al dibattito, ricco di spunti, aneddoti, cold cases per capire come l’universo digitale e la disintermediazione possano offrire opportunità e vantaggi competitivi ai giornalisti in grado di approfittarne.
Alcune persone mi hanno chiesto i testi di quei video, pubblico qui i miei appunti originali utilizzati nella loro grandissima parte per il corso, dopo qualche taglio per renderli della durata giusta (grazie ai colleghi della produzione!). Il corso si intitola “Il giornalista nell’universo digitale e l’albero delle fonti” ed è diviso in quattro parti. La quarta parte la trovate qui sotto, le altre sono linkate.
- L’albero della informazioni
- Controllare anche la mamma
- Di suole e di scarpe digitali
- Proteggere le fonti, proteggere il giornalismo
4/ Proteggere le fonti, proteggere il giornalismo
Nella prima parte di queste chiacchierate, abbiamo insistito sull’obbligo che come giornalisti abbiamo di citare sempre le nostre fonti… sta scritto nel punto cinque dell’articolo 9 del Testo unico dei doveri del giornalista. Nello stesso articolo, però, è anche prevista una eccezione… dice, infatti ,che il giornalista “rispetta il segreto professionale e dà notizia di tale circostanza nel caso in cui le fonti chiedano di rimanere riservate”.
La logica di questa norma: per garantire la funzione di controllo del giornalismo, occorre che le persone possano rivolgersi ai giornalisti senza timore che ciò che racconteranno possa metterli a rischio di ritorsioni. E’ un elemento cruciale del riconoscimento del valore sociale del giornalismo: le fonti devono essere protette, perché così proteggiamo il giornalismo e in ultima analisi il cittadino.
La protezione delle fonti può assumere diversi aspetti, tanto più nell’universo digitale:
- Ciò che devono fare i giornalisti per proteggere l’identità delle fonti confidenziali
- Ciò che devono fare gli Stati e le autorità pubbliche perché questa protezione sia assicurata anche normativamente
- Ciò che devono fare i giornalisti per proteggere il benessere e gli interessi, personali ed economici, delle proprie fonti — anche non confidenziali
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Per come è formulata nel “Testo unico”, però, la norma sembra riflettere una comunicazione tradizionale tra giornalista e fonte:
- il giornalista incontra la fonte o gli telefona;
- gli fa alcune domande;
- la fonte gli dichiara che è disposta a rispondere, ma chiede di non essere citata;
- il giornalista accetta.
Nella realtà digitale non funziona proprio così e — specialmente — anche quando funziona così (per esempio: in una telefonata) i rischi per la riservatezza delle fonti sono maggiori: anche solo i metadati di quella telefonata rischiano di svelare la fonte.
Abbiamo detto che le reti digitali sono una benedizione per i giornalisti che vogliono fare inchieste, indagare, scoprire e verificare informazioni — ma, naturalmente, sono una benedizione anche per soggetti che alle nostre indagini e ricerche riservate potrebbero essere interessati: soggetti istituzionali, come Stati, polizie, servizi segreti, o anche soggetti privati, come aziende, agenzie di business intelligence eccetera.
Servono, pertanto comportamenti e norme adeguate all’oggi.
- In particolare i giornalisti devono adottare comportamenti e adoperare strumenti che proteggano, nella misura del possibile, le fonti che vogliono mettersi in contatto con loro in forma veramente riservata.
- Occorre proteggere preventivamente i cosiddetti whistleblowers, coloro cioè che all’interno di una organizzazione sono pronti a rivelare informazioni riservate di rilevanza pubblica.
La discussione in campo internazionale è stata molto intensa in questi anni e proprio in Italia, nel 2018, diverse organizzazioni ed esperti sono arrivati a stabilire alcuni principi fondamentali della protezione delle fonti nel mondo digitale. Li hanno chiamati “The Perugia Principles”, i principi di Perugia. Sono dodici:
1. Primo, proteggi le tue fonti. Difendi l’anonimato quando ti viene richiesto
2. Offri alle fonti un modo sicuro per avere un “primo contatto” con te
3. Riconosci le conseguenze che potranno ricadere sul whistleblower e spingilo a pensare in anticipo come affrontarle quando la storia sarà pubblicata
4. Verifica il materiale concentrandoti sul sull’interesse pubblico delle informazioni fornite, non su quello che pensi degli atteggiamenti o delle opinioni della tua fonte.
5. Sii responsabile delle tue difese digitali, usa la cifratura. Anche se la cifratura non difende completamente la tua fonte, le offre una prima linea di protezione
6. Stabilisci quali sono le minacce maggiori per te e per la tua fonte e quali misure devi prendere per proteggere ambedue.
7. Spiega alla tua fonte o whistleblower i rischi che corre. Se la vicenda è particolarmente delicata, insegna alla tua fonte alcune misure di sicurezza basilari.
8. Pubblica i documenti e i dataset originali nella loro interezza, quando è possibile e sicuro farlo.
9. Quando le fonti te lo chiedono, cancella in modo sicuro i dati che ti hanno fornito, in accordo naturalmente con gli obblighi etici, legali e relativi al rapporto di lavoro.
10. Assicurati che le caselle postali dove le fonti riservate e i whistleblowers possono lasciare documenti assicurino un buon livello di sicurezza e — se si tratta di materiali ad alto rischio — l’anonimato.
11. Devi conoscere la cornice giuridica e regolamentare a livello statale, regionale e internazionale relativa alla protezione di fonti riservate e dei whistleblower.
12. Spingi gli editori d’informazione ad assumersi la loro parte di responsabilità fornendo strumenti adeguati di sicurezza per i dati dei giornalisti, delle fonti e dei materiali nei loro database. Chiedi corsi e linee guida per aiutare i giornalisti.
L’ultimo punto è particolarmente importante: in un mondo sempre più complesso, difficilmente il singolo giornalista può difendersi senza l’aiuto di una costosa organizzazione.
Poiché tuttavia molti giornalisti lavorano come free lance, sarebbe opportuno organizzare strumenti e piattaforme collettive che consentano ai singoli di godere almeno in parte delle garanzie offerte dalle grandi redazioni.
Il caso più clamoroso e forse noto di whistleblower dei primi anni 2000 è stato Edward Snowden, l’analista dei servizi segreti americani che trasmise ad alcuni giornalisti innumerevoli documenti interni sui metodi di raccolta sistematica e di massa di dati personali in tutto il mondo.
Per farlo, però, dovete letteralmente insegnare come comunicare riservatamente ai giornalisti con i quali si era messo in contatto.
Ecco alcuni suggerimenti di Snowden ai giornalisti, riassunti da un articolo del sito di giornalismo investigativo The Intercept:
- Cifrare telefonate e messaggi
Con la app Signal, disponibile per iOS e Android. - Criptare anche l’hard disk del computer
Con Windows, usando BitLocker; con il Mac, usando FileVault; con Linux, scegliendo una chiave di sicurezza in fase di installazione. - Attenzione alla password
Meglio averle diversificate. Per maggiore protezione usare un “password manager”, Snowden consiglia: KeePassX. - Attenzione al telefono.
“Lo smartphone parla di te anche quando tu non lo usi”, dice Snowden. Ad esempio, sa dove ti trovi. - Consigliabile la doppia autenticazione
È una “muraglia” di protezione in più: se qualcuno cercasse di violare il tuo account, c’è una chance in più di impedirglielo. - Usare Tor
Tor è un browser, serve a navigare il web in modalità anonima: “E’ il progetto più importante per la protezione della privacy, io lo uso sempre”, dice Snowden - Gli adblock
Secondo Snowden, è bene usare i sistemi per bloccare la pubblicità via browser, non tanto per preferenze personali, ma perché se il provider non ti protegge, allora anche lo spot può veicolare potenziali attacchi. - Giocare di strategia
Se possiedi informazioni sensibili perché sei un giornalista o un whistleblower, prima di tutto devi avere una strategia. Per esempio stabilisci cosa è davvero importante proteggere, non si può nascondere tutto. Dì solo il necessario. - Prima di condividere, rifletti
Condividere informazioni non è un male in assoluto, ma prima di farlo, pensaci bene: vale davvero la pena scrivere su Facebook in che farmacia vai, o quella informazione sulla tua famiglia? Pratica la “condivisione selettiva”.
Questi sono solo alcuni dei consigli, ma potrebbero non bastare. In certi casi, forse, è meglio dimenticare le comunicazioni digitali e tornare — come dire? — alle comunicazioni di persona, possono tornare ancora utili i segnali sul balcone di casa e i vecchi incontri notturni nei garage, che divennero celebri a metà degli anni Settanta con lo scandalo Watergate. :-)
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Chi vi parla è abbastanza cresciutello per sapere che la protezione delle fonti riservate non è cosa che possa e debba competere solo al giornalista e alle redazioni dove lavora.
Non c’è protezione morale, fisica o elettronica che tenga, se la normativa e — prima ancora — l’etos politico-giuridico nel quale lavoriamo non riconoscono il valore di questa funzione.
Sappiamo bene con quante difficoltà i sistemi giuridici dei vari Paesi ammettano la riservatezza delle fonti giornalistiche — se pure lo fanno. In particolare in Italia, la prassi degli inquirenti hanno spesso fatto strame dei principi che l’ordinamento prevede — sia pur con limiti e contraddizioni. E non siamo i soli.
Un esempio, abbastanza tragico: alla fine del 2018, pochi mesi prima della registrazione di questo intervento, l’autorità garante della privacy della Romania — paese UE — ha ordinato a un sito di giornalismo investigativo di rivelare le fonti di un loro servizio, in nome del nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR). Questo nonostante che la nuova normativa preveda una esplicita eccezione per gli organi di informazione giornalistica.
La novità del mondo e delle comunicazioni digitali rendono questa necessità ancora più urgente, proprio perché dal mondo politico e dal mondo dei tutori dell’ordine in molti Paesi si cerca piuttosto di ridurre le protezioni là dove ci sono, e di rendere trasparenti alle autorità le nostre comunicazioni.
Un esempio contro-intuitivo è la crescita degli appelli alla cancellazione dell’anonimato in rete, concetto con il quale sembrano largamente in sintonia anche molti editori e molti giornalisti. A parte il fatto che l’anonimato vero e proprio nelle piattaforme sociali che conosciamo è assai relativo, giornalisti ed editori dovrebbero piuttosto chiedersi se così facendo non si mettano a rischio le fonti potenziali dei propri servizi — non si metta a rischio, in una parola, la funzione stessa del giornalismo in una democrazia liberale.
Per cercare una soluzione a problemi di questo genere, nel 2016 l’UNESCO — l‘agenzia dell’ONU per la Cultura — ha commissionato un rapporto intitolato “Protecting Sources in the Digital Age” che ha analizzato la non brillante situazione giuridico-legale di molti Paesi e si conclude con alcune raccomandazioni, queste le più importanti rivolte agli Stati:
- Garantire per legge la protezione delle fonti, estendendola alle comunicazioni e alle pubblicazioni digitali e a ogni atto di giornalismo di interesse pubblico
(si noti: si invita a proteggere gli “atti di giornalismo” a prescindere da chi ne è l’autore) - La legislazione relativa alla sicurezza nazionale e alla lotta al crimine non deve cancellare la protezione delle fonti, se non in circostanze eccezionali e rigidamente definite
- La sorveglianza (di massa o mirata) e le norme sull’obbligo di conservazione dei dati non devono minare le protezioni legali per la protezione delle fonti
Ci sono in realtà quasi duecento pagine di analisi e raccomandazioni che i giornalisti farebbero bene a studiare e introiettare. Se non lo facciamo noi, come possiamo pensare che i politici e gli amministratori pubblici, per non parlare della autorità giudiziaria e di polizia, rispettino questo principio?
Senza una profonda consapevolezza da parte dei giornalisti dei rischi cui va incontro l’esercizio libero di questa professione, difficilmente troveremo qualcuno che lo farà per noi visto il clima politico prevalente.
Gli altri cittadini, oltre ad avere il diritto costituzionale di esprimersi in pubblico come noi, sono le nostre fonti: la protezione della loro libertà e la protezione della nostra libertà.
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Abbiamo parlato della protezione delle fonti riservate, dei rischi che l’universo digitale presenta e di che cosa possiamo fare per minimizzare il rischio personale dei cittadini disposti a collaborare con noi nelle inchieste che contano e tuttavia queste non sono le uniche fonti da proteggere.
Anche per le fonti note che non chiedono la riservatezza, l’universo digitale presenta ai giornalisti problemi etico-deontologici nuovi.
Parliamo di un mondo dove ogni cittadino può fornire elementi di informazione su argomenti di attualità e che — lo abbiamo detto nella terza sezione — il giornalista deve utilizzare per far bene il suo mestiere, ma come lo deve fare? Cioè: quali accortezze deve avere per evitare o almeno minimizzare i danni, i problemi che le fonti potrebbero subire per il fatto che noi utilizziamo o — addirittura richiediamo le loro informazioni?
Non tutto è normato e normabile dalle carte deontologiche, ma non è detto che ciò che le carte deontologiche non normano sia di per sé una cosa giusta da fare. Sarebbe bene che i giornalisti e le redazioni si interrogassero su questi problemi, stabilissero norme in questo campo cui promettono di aderire, a prescindere da ciò che già la legge o i codici deontologici impongono loro.
Facciamo alcuni esempi.
Spesso e volentieri, ormai da molti anni, le redazioni chiedono esplicitamente l’aiuto dei cittadini per raccogliere informazioni in casi di grandi eventi di attualità, ad esempio nel caso di disastri naturali, attentati, manifestazioni, ecc. Quanti “Cliccate qui per mandare le vostre foto” abbiamo visto o addirittura messo in pagina?
La cosa non è in sé sbagliata e tuttavia la coscienza di una redazione deve porsi il problema della sicurezza di queste fonti non professionali: in una situazione di vera emergenza, ciò che possiamo chiedere a un collega professionalmente attrezzato non è la stessa cosa di ciò che possiamo chiedere a un cittadino qualunque, dobbiamo fare attenzione alle richieste che facciamo loro (“Mandami un video… una foto più chiara, presa da più vicino…”). Non è giusto far correre rischi supplementari a persone che vivono già una situazione rischiosa.
Analogamente, quando ci accorgiamo via Twitter, Instagram, Facebook che qualcuno è testimone di un avvenimento, dobbiamo chiederci sempre se e come entrare in contatto con lui o con lei.
Andiamo oltre: quando ci rendessimo conto che un cittadino/utente corre un grave rischio perché ha pubblicato sui social media una foto o un video, dobbiamo sempre chiederci se la ripubblicazione di quella foto o di quel video sulla nostra testata non possa aggravare quel rischio — potremmo avere un effetto di amplificazione di una informazione che forse passerebbe inosservata
Non possiamo stabilire una regola precisa in questi casi e tuttavia dobbiamo sempre porci la domanda e valutare se il vantaggio informativo della nostra ri-pubblicazione vale il rischio aumentato che facciamo correre al cittadino.
C’è un’altra protezione delle fonti pubbliche che va rispettata: quella dei diritti di chi certe immagini ha prodotto e pubblicato.
Un tempo, nelle redazioni italiane girava l’idea che ciò che fosse pubblicato sul web fosse di dominio pubblico. Ancora qualcuno forse lo pensa, ma a quel qualcuno lo chiariamo ancora una volta: non è così. Se editori e giornalisti hanno fatto il diavolo a quattro nel 2018–2019 per farsi riconoscere dalla nuova legge europea sul copyright diritti che prima non esistevano, tanto più dovranno rispettare i diritti che già esistono e che sono in capo ai cittadini/utenti che pubblicano sui media sociali i loro materiali.
Per essere ancora più chiari: se io scatto e pubblico la foto di una manifestazione cui partecipo, o della festa di compleanno di mia zia, quelle foto non sono disponibili per chiunque. Io e solo io ho il diritto di decidere se, dove e a quali condizioni pubblicarle o vederle ri-pubblicate da qualche parte.
Il primo diritto imprescindibile è quello di vedermi riconosciuto come l’autore di quelle foto. La redazione deve spiegare chiaramente che quelle foto sono mie.
Non è un optional. E non è una questione solo di tipo legale ed economico, per i giornalisti è anche una questione etico-deontologica… torniamo al nostro punto 5 dell’articolo 9 del Testo unico: il giornalista deve sempre citare le fonti
e tale obbligo persiste anche quando si usino materiali — testi, immagini, sonoro — delle agenzie, di altri mezzi d’informazione o dei social network
Su questo punto non ci possono essere dubbi, tanto più che — per definizione — chi pubblica qualcosa sui propri account non sta certamente chiedendo l’anonimato.
Ci sono poi i diritti economici. L’autore del video o dello scatto può chiedere di essere pagato, noi possiamo anche chiedergli una licenza gratuita, ma — appunto — glielo dobbiamo chiedere. Spesso i cittadini si sentono onorati della richiesta e la concedono, ma se non lo fanno e noi non vogliamo pagare, quelle immagini non le possiamo usare. Punto.
Corollario di tutto questo: l’illogicità e l’inutilità di una prassi che pure a volte si è vista nelle redazioni si attribuire il credit di una foto o di un video alla piattaforma dove lo abbiamo trovato, tipo: “Foto Facebook”, “Foto Twitter”, “Video YouTube”. NO. Le piattaforme hanno acquisito solo il diritto a pubblicare i materiali sulle loro pagine, i diritti di pubblicazione altrove restano sempre e comunque del titolare.
Quanto a difendere le fonti quando le fonti sono i cittadini, dobbiamo accennare a una prassi negativa che prevale in molte redazioni: di fronte a un fatto di cronaca nera o bianca si corre a esplorare la pagina Facebook e gli account social dei protagonisti per trarne informazioni e spesso anche immagini.
Prima di tutto, anche in questi casi le foto hanno degli autori che sono titolari di diritti morali ed economici. Valgono, cioè, i criteri di cui abbiamo appena parlato.
In linea di massima l’uso di fotografie e materiali tratti da profili/account sui media sociali di protagonisti di fatti di cronaca, in particolare di vittime o persone accusate in eventi di cronaca nera, deve essere evitato o dovrebbe avvenire solo in casi eccezionali previa autorizzazione di una funzione direttiva della redazione.
Lo so che questo va contro ogni istinto del vecchio cronista di nera — all’inizio della mia carriera “uscivo” con fotografi che erano orgogliosi di rubare la foto della bambina morta dal comodino della mamma in lacrime — e tuttavia questo è ciò che è giusto fare, tanto più che nel mondo digitale anche il danno può essere moltiplicato per mille.
Nei rari casi nei quali si decida per usare quei materiali, il giornalista deve farlo con grande parsimonia e con il massimo rispetto delle persone coinvolte, valutando con attenzione il valore informativo delle immagini che si riproducono. In particolare è sbagliato creare intere gallerie fotografiche con immagini di questo tipo.
Ecco: protezione delle fonti riservate nel mondo digitale… protezione giuridica e normativa… protezione del benessere e degli interessi dei cittadini che diventano fonti.
Il mondo digitale ci offre straordinarie nuove opportunità, ma anche nuovi rischi e problemi. Non basta adattare al mondo digitale le norme e le prassi nate in epoche precedenti, occorre anche crearne di nuove.
Esattamente come non basta adattare ai canali digitali gli strumenti narrativi nati in altri contesti, non basta “saper scrivere per il web” per essere giornalisti veramente digitali. Dobbiamo essere “digitali dentro”, conoscere e introiettare la cultura dell’universo digitale.
Poi ognuno scriva pure sulla sua pergamena ;-)
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- L’albero della informazioni
- Controllare anche la mamma
- Di suole e di scarpe digitali
- Proteggere le fonti, proteggere il giornalismo