Riflessioni su un quarto di secolo di giornalismo digitale: le invarianti

Mario Tedeschini-Lalli
11 min readJan 24, 2023

Non c’è più alcuna “transizione digitale” da fare. Che resta dei valori del giornalismo professionale, quando tutto il resto continua a mutare. Come restare “rilevanti”, se il giornalismo professionale non è più al centro delle relazioni sociali.

Convegno “Digito ergo sum. L’informazione al tempo del digitale”, Roma 24 gennaio 2023 (Foto Primopiano Academy)

Sono quasi due anni che, da bravo pensionato, non scrivo più nulla qui sopra. Questa mattina (23 gennaio 2023) ho però accettato di partecipare al convegno “Digito ergo sum. L’informazione al tempo del digitale”, organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti a Roma e pubblico qui gli appunti della riflessione che ho svolto in pubblico. Ringrazio il presidente dell’Ordine Carlo Bartoli e la presidente della commissione Cultura, Elena Golino, per l’occasione di tornare a mettere il moto il cervello (e a provocare un po’).

Sono molto contento di essere qui a parlare della “Informazione al tempo del digitale” — suppongo di essere stato invitato in quanto “vecchio” di questo mondo digitale.

Pensate che sono già da sei anni in pensione — una pensione vera! — e che prima avevo passato metà della mia vita professionale a occuparmi di digitale. Questo per dire che il giornalismo digitale è una storia vecchia.

Un piccolo esempio.

Repubblica è stata la prima testata a dotarsi di una redazione web — e andò in linea 26 anni fa, il 14 gennaio 1997. Cinque giorni dopo, il 19 gennaio, qui a Roma nacque una bambina, quasi gemella di Repubblica.it. Bene… quella bambina ora è una collega professionista e lavora per quella stessa redazione!

Capite quanto sono vecchio e quanto è vecchio il giornalismo digitale?

Per questo mi vengono le bolle quando sento editori e — purtroppo — anche colleghi e colleghe che parlano ancora di “transizione al digitale”.

Care amiche e amici: per il giornalismo italiano non è più tempo di transitare, il digitale già permea la nostra vita e il nostro lavoro. Chi non è transitato, non transita più.

Attenzione: il digitale non è un insieme di strumenti tecnici da imparare per fare in modo diverso le cose che facevamo prima; il digitale è un mondo nuovo, una cultura nuova, da conoscere e da vivere.

A me sembra necessario parlare di questa cultura, di come ha trasformato il nostro mestiere e di come possiamo ancora farlo.

Ho una brutta notizia da darvi: non siamo diretti verso un universo informativo diverso, ma stabile — com’era stabile quello che la mia generazione ha conosciuto.

La normalità è e sarà la mutazione.

Lasciamo per un momento perdere i pur legittimi discorsi sui modelli di affari, sulla organizzazione del lavoro, sui contratti, sulle tecnologie da imparare (possiamo riflettervi in altre occasioni). Cerchiamo di ragionare sulle “invarianti” di questo mestiere, su ciò che resta o dovrebbe restare fermo al variare di tutto il resto.

D’altra parte siamo in ambito ordinistico, qui dovremmo parlare di valori, prima che di strumenti.

Ci sono molte caratteristiche peculiari dell’universo digitale che impattano sul mestiere del giornalista e per le quali dobbiamo attrezzarci culturalmente, prima che tecnicamente. Provo a indicarne alcune, indicandone i rischi e le opportunità.

Essere periferici

Nel mondo pre-digitale i media, i giornali in particolare, erano al centro della comunicazione. Erano un passaggio obbligato, un collo di bottiglia.

Quel collo di bottiglia non esiste più.

Se l’atto del “pubblicare” equivale a spingere il tasto “Pubblica”, cittadini e cittadine, esponenti della politica, aziende, associazioni, ecc. possono fare a meno dei giornali — e in effetti ne fanno a meno.

In altre parole: il giornalismo professionale non è più strutturalmente “centrale” alla vita di relazione.

La scommessa è continuare, o tornare a essere rilevanti per la società, anche se ormai in posizione eccentrica.

L’unica cosa che non possiamo immaginare è di tornare centrali.

Qualunque speranza che una norma di legge o uno strumento tecnico possano ristabilire le nostre imprese come il collo di bottiglia della comunicazione sociale è una illusione.

Una pericolosa illusione, perché ci distrae dal compito vitale di capire come fare a essere rilevanti nella situazione data.

Piuttosto, dobbiamo “sfruttare” questo nostro essere eccentrici, periferici. Lo possiamo fare distinguendo il nostro prodotto non in termini tautologici (“è giornalismo buono perché fatto da giornalisti”), ma offrendo qualcosa di veramente diverso da ciò che altri producono e offrono.

Per far questo, come prima cosa dobbiamo scegliere di più.

Scegliere di più

In fondo, che cosa “fa” chi produce giornalismo? No, non “scrive” (scrivono molto di più i copy delle agenzie pubblicitarie o gli autori di fiction e — ben presto — i motori di intelligenza artificiale)…

La giornalista, il giornalista, cerca, verifica e specialmente sceglie, seleziona le informazioni.

Certo, lo fanno anche altri, ma i giornalisti e le giornaliste, scelgono secondo certi criteri, seguendo delle regole che si sono dati.

Le regole che noi chiamiamo di “deontologia” e che in altri, più diretti, sistemi culturali, si chiama “etica professionale” — una cosa che va, cioè, al di là o precede la norma di legge.

Questa è la prima invariante: in qualunque ambiente comunicativo, il giornalista sceglie ciò che vuole comunicare. E lo fa secondo criteri professionali definiti e dichiarati.

Per essere socialmente rilevanti, per essere — come si suol dire — agenda setter, dobbiamo scegliere, anzi dobbiamo scegliere di più. Dobbiamo abbandonare qualunque pretesa universalistica, già problematica prima, impossibile e inutile oggi.

In questo senso, il fatto di non essere più il centro, il passaggio obbligato di ogni comunicazione ha un effetto straordinariamente positivo: ci rende più liberi, almeno potenzialmente più liberi — solo che sappiamo sfruttare questa libertà.

Esempio: se una persona impegnata in politica può parlare al corpo elettorale direttamente, o attraverso canali diversi dai nostri, vuol dire che non abbiamo più alcun “dovere” di riferire ogni scemenza che dice o che fa. Ne riferiremo se, secondo i nostri criteri, ciò che dice o ciò che fa ha una rilevanza per la vita del nostro pubblico.

Saremo, così , più liberi. Più liberi di non inseguire l’ultima dichiarazione. Più liberi di non farci imporre un’agenda.

Perché ciò accada, però, occorre che si determinino alcune condizioni: che questa maggiore libertà la desideriamo veramente, che siamo pronti a lasciare in secondo piano l’agenda politica così come la propongono gli altri e non invece a cavalcarla.

…Vi sembra che stiamo andando in quella direzione?

E non si tratta solo di politica. Il circolo vizioso tra media sociali e media professionali ci dimostra tutti i santi giorni che andiamo, ahinoi, nella direzione opposta.

E che utilità c’è se il giornalismo professionale si fa specchio e moltiplicatore di informazioni che non ha generato secondo i suoi criteri? A che serve?

La deontologia giornalistica nell’universo digitale non ha più solo un valore etico o legale, potrebbe avere un valore economico. Prima i cittadini e le cittadine erano costretti a comprare un giornale per informarsi, ma oggi perché dovrebbero contribuire finanziariamente a una testata giornalistica, se questa non si differenzia da ciò che trovano altrove?

Ancor meglio: perché dovrebbero farlo se non per il differente metodo, per il differente ethos che informa i nostri contenuti?

“Scegliere di più” vuol dire anche spiegare di più, spiegare le ragioni e i criteri delle nostre scelte, in un confronto pubblico con la nostra comunità di riferimento. Vuol dire per esempio:

  • pubblicare in luogo visibile le regole etiche che la testata si è data (no, il Testo unico dei doveri del giornalista non basta)
  • spiegare pubblicamente perché, eventualmente, le regole siano state modificate o eccezionalmente violate
  • spiegare pubblicamente scelte redazionali che potrebbero essere controverse
  • indicare su quali basi affermiamo ciò che affermiamo, in una parola: indicare le fonti! (Cfr. punto E, articolo 9, Testo unico dei doveri del giornalista: “il giornalista rispetta il segreto professionale e dà notizia di tale circostanza nel caso in cui le fonti chiedano di rimanere riservate; in tutti gli altri casi le cita sempre”)

Ecco, l’esercizio della responsabilità nella selezione delle informazioni è l’invariante del giornalismo in qualunque ambiente informativo.

E diventa essenziale quando non sono più solo i giornalisti e le giornaliste a fare informazione.

A che punto siamo su questa strada, lascio a ognuno di voi di giudicare.

Scrivere per il futuro

Un’altra invariante del mestiere del giornalismo è che la sua informazione si propone di evidenziare nessi e costruire significato.

Nel mondo pre-digitale la tecnologia (di stampa o radiotelevisiva) ci obbligava a costruire il senso nel presente, per il qui e l’ora. Nell’universo digitale, invece, il tempo non è dato. Ciò che scriviamo oggi sul web è letto domani, dopodomani o tra sei anni.

Ancora pochi anni fa, c’era chi sosteneva che il web fosse sinonimo di informazione rapida e immediata a differenza del grande giornale cartaceo, luogo invece dell’approfondimento e della costruzione di senso.

Sapevamo allora e ormai è sotto gli occhi di tutti che è vero esattamente il contrario: i giornali di carta, per non parlare dei notiziari radiofonici o televisivi, sono il luogo dell’informazione effimera, del qui ed ora. L’informazione digitale è informazione “che dura”, che sviluppa senso nel tempo.

Diciamolo in altre parole: nel mondo digitale non scriviamo o comunichiamo solo per l’oggi, scriviamo e comunichiamo anche per il futuro. Il che — di nuovo — ci offre nuove straordinarie opportunità (quando mai un giornalista ha potuto sperare che l’influenza sociale del proprio lavoro potesse estendersi negli anni?), ma anche nuovi problemi.

Per questo occorre imparare — per così dire — a scrivere per il futuro, cioè a creare significato nel futuro.

“Scrivere per il futuro” implica alcune questioni che riguardano il modo di lavorare e altre relative alle “conseguenze”.

Al modo di lavorare accenno soltanto: si tratta di organizzare i materiali in modo che siano comprensibili in un contesto temporale diverso. Ad esempio:

  • Scrittura non allusiva e che non dia per scontato il contesto — quella che chiamo la “autocomprensibilità” dei testi.
  • tag in grado di ricostruire nel tempo il contesto originario
  • meno items su uno stesso argomento
  • ecc.

Esistono però anche questioni deontologiche nuove: quando e come eventualmente modificare nel tempo i nostri materiali? Quando e come correggere, quando e come aggiornare e precisare.

Per primo, occorre dotarsi di strumenti tecnici perché la redazione possa farlo (no, in questo momento non sempre è possibile)

Nella organizzazione del lavoro ci deve essere, poi, qualcuno che pensi e si occupi di questo “giornalismo trans-temporale”.

Serve, specialmente, che le redazioni ed eventualmente anche gli organismi professionali riflettano sui criteri degli interventi da effettuare sul materiale già pubblicato.

Lo sappiamo, le redazioni sono oberate da richieste di de-indicizzazione o, più spesso, di cancellazione di parti di articolo o di interi articoli. Esiste il problema legale del cosiddetto “diritto all’oblio” — ne parlerò tra poco — ma c’è prima di tutto un problema etico-professionale che dobbiamo porci — a prescindere dalle questioni legali!

Ogni giorno ci poniamo il problema — o meglio, dovremmo porci il problema — delle conseguenze del nostro giornalismo, le regole deontologiche, l’etica professionale ci stanno proprio per quello: quando decidiamo che il bene pubblico sovrasta il danno privato, che pur provochiamo, pubblichiamo.

Tutto questo, finora, funzionava al presente: quale bene oggi, quale danno oggi?

Ma, come abbiamo detto, nel digitale ciò che pubblichiamo oggi può avere conseguenze domani, conseguenze che non possiamo prevedere ma che non possiamo ignorare.

Se un’informazione è completa e corretta oggi, potrebbe non essere più altrettanto completa e corretta domani… oppure il bene pubblico che ci ha indotto a pubblicare oggi potrebbe scemare o il male privato crescere.

Non ci sono soluzioni uniche e — specialmente — non è una cosa che possa essere discussa solo in termini di norme di legge.

La cosa importante è che se ne discuta pubblicamente e che la discussione generi delle linee guida:

  • quando si modifica
  • come si modifica
  • le ragioni per le quali pensiamo sia giusto modificare
  • se e quando sia possibile sopprimere una parte del pubblicato e che cosa debba sostituire la parte eventualmente soppressa… e così via.

Dal mio punto di vista non è necessario che ci sia per forza una norma valida per tutti. Però è necessario che una norma ci sia, che sia pubblica e che ogni testata si dichiari responsabile di fronte alla cittadinanza dell’applicazione delle regole che si è data.

Poi potrà cambiarle, ma anche in quel caso pubblicamente.

Se affronteremo al nostro interno, per il nostro interesse professionale, questi problemi, sarà più facile affrontare e resistere alle ingiunzioni crescenti di politici, giudici e avvocati che pretendono di intervenire, modificare e persino di cancellare il nostro giornalismo — nel nome del cosiddetto “diritto all’oblio”.

Liberi di informare, per sempre

Dico “cosiddetto”, perché il diritto all’oblio è una cosa complicata e ancora largamente indefinita, nonostante la giurisprudenza europea, la contraddittoria giurisprudenza italiana e la recente legislazione nazionale.

E’ talmente complesso, che in molti casi si preferisce tagliare di netto il problema, affermando nei fatti il diritto del cittadino e il dovere del giornalista di cancellare elementi della Storia, anche se sono veritieri e corretti.

Propongo qui di resistere a questo senso comune che si va espandendo. Di resistere proprio in termini valoriali, costituzionali. In quanto giornaliste e giornalisti.

Naturalmente, non si nega l’esistenza di problemi nuovi per i cittadini che nascono dalla nuova “permanenza” della informazione. Ne abbiamo parlato prima.

Quello che sostengo è che interessi e diritti in conflitto debbano essere contemperati nello scorrere del tempo, esattamente come facciamo nel presente.

Mi spiego…

La Costituzione indica la libertà di stampa e di informazione come bene assoluto (Se non siamo d’accordo su questo, non andiamo da nessuna parte)

Ovviamente, la Costituzione afferma con altrettanta forza diverse libertà e diversi diritti e a volte questi diritti e queste libertà entrano in conflitto, come è naturale che sia.

La giurisprudenza nazionale e la giurisprudenza europea hanno cercato in questi anni di contemperare i diritti fondamentali dell’individuo oggetto di cronaca, con il diritto fondamentale della cittadinanza a una informazione libera.

Questo principio è pacifico: due diritti di livello costituzionale, quando entrino in conflitto, sono contemperati dalla giurisprudenza.

Ma quello che è pacifico quando lavoriamo per il presente, sembra non essere altrettanto pacifico quando lavoriamo per il futuro. Fino al punto che nel 2016 la Corte di cassazione, ha dato ragione a un tribunale della Repubblica secondo il quale le notizie hanno una scadenza, come lo yogurt. Dopo un po’ non servono più, vanno cancellate.

Guardate che non sono cose teoriche: come conseguenza di quelle sentenze una testata giornalistica abruzzese è stata costretta a chiudere e il collega che l’aveva creata e diretta per anni è stato costretto a fare altro.

Occorre, dunque, rivendicare e affermare il principio della libertà di stampa “nel tempo”.

Cerco di spiegarmi, consapevole di proporre una riflessione inusuale a colleghe, colleghi e a chi studia il Diritto costituzionale.

L’articolo 21 della Costituzione e la legge sulla Stampa del 1948 sono state concepite quando la “stampa” e il “giornalismo” erano attività per il presente, cioè quando tempo di pubblicazione e tempo di fruizione coincidevano. Che succede quando non coincidono più?

Affermo che i diritti sanciti dalla Costituzione sono indivisibili nel tempo, anche quelli dell’art. 21:

  • devono valere per qualunque “atto di pubblicazione”, a prescindere dal contesto temporale
  • altrimenti si dovrebbe paradossalmente affermare che al primo e al secondo comma dell’articolo (che — ricordo — recitano: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”), debba intendersi aggiunto l’emendamento “…ma solo per un po’”

Ragioniamo per paradosso: accetteremmo mai che la libertà di espressione sancita dalla Costituzione fosse limitata… nello spazio? Tipo: puoi scrivere quello che vuoi a Roma, ma non a Venezia, o non puoi distribuirlo a Venezia? Puoi pubblicare un articolo sulla mafia a Milano, ma non farlo leggere a Palermo?

Perché, allora, in via di principio dovremmo accettare che la libertà di espressione e la libertà di stampa siano limitate nel tempo?

Il nuovo universo nel quale viviamo estende le libertà e lo fa per tutti. I giornalisti, gli editori, i cittadini dovrebbero sostenere la libertà di informare, sempre. O meglio: per sempre

Dovremmo farne una grande battaglia.

Se capiremo che il giornalismo nell’universo digitale è un giornalismo che agisce nel futuro, che è un giornalismo trans-temporale, diacronico, se ci doteremo degli strumenti eticamente e tecnicamente giusti per gestire questo nuovo universo informativo… forse potremo con più facilità resistere alle crescenti pulsioni censorie e rivendicare, con orgoglio professionale, il diritto alla memoria, oltre che a quello all’oblio.

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Mario Tedeschini-Lalli

Antico giornalista. Consulente di editoria digitale. Docente di Giornalismo digitale. Studioso di Storia contemporanea. Blog (2003/18): http://bit.ly/blogmario