Salvare il giornalismo, forse

Un mestiere, i suoi valori e la crisi verticale del modello industriale dell’informazione

Mario Tedeschini-Lalli
9 min readMay 8, 2024
Presentazione del Rapporto 2024 dell’Osservatorio sul Giornalismo digitale, promosso dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Roma, 7 maggio 2024

È stato presentato a Roma il rapporto 2024 sulle tendenze del giornalismo italiano, preparato dall’Osservatorio sul giornalismo digitale promosso dall’Ordine dei giornalisti, per il quale mi è stato cortesemente chiesto di contribuire con un riflessione “di scenario”. Il rapporto integrale è consultabile sul sito dell’Ordine, pubblico anche qui il mio contributo.

Già molti, molti anni fa — diciamo una ventina — c’era chi provava a dire che di fronte alla rivoluzione digitale il problema non fosse “salvare i giornali”, ma “salvare il giornalismo”, perché di tutta evidenza l’equivalenza giornalismo=giornale non reggeva più. L’equivoco ha contribuito nel tempo a rendere ancora più incerto l’esito della battaglia per “salvare il giornalismo” e ora siamo, in un certo senso, giunti a temere che perda di significato anche l’equivalenza giornalismo=giornalista.

Se non possiamo più salvare “i giornali”, possiamo ancora pensare di salvare i giornalisti, le giornaliste, nel senso della loro funzione professionale? E senza persone che fanno questo di mestiere, possiamo ancora pensare di salvare “il giornalismo”?

Sono un vecchio, anzi un antico giornalista digitale in pensione e ogni tanto la cortesia di qualche più giovane collega mi convince a riflettere pubblicamente su problemi dei quali ormai da tempo non mi occupo più direttamente, ma la distanza forse aiuta a valutare il quadro d’insieme, che è sempre più drammatico, come ci mostra questo stesso rapporto. In questo, la mia risposta alla prima domanda è: “Sì, forse”; la risposta alla seconda: “Penso di no, ma chissà”.

Tutto sta a intendersi sui termini. Se non vale più la tautologia “è giornalismo ciò che producono i giornali”, occorre chiedersi che cosa intendiamo quando parliamo di quel tipo d’informazione che ancora chiamiamo con orgoglio “giornalismo”. Per farlo occorre chiarire una volta di più che cosa è successo, come siamo arrivati a questo punto.

Crisi strutturale

Come prima cosa — per favore! — non facciamoci attirare dal miraggio della spiegazione contenutistico/politica, che il giornalismo sia in crisi perché fatto male, anzi fatto peggio di come era fatto prima. A me non piace la gran parte di ciò che produce la stampa in Italia, ma la crisi non è di contenuto, la crisi è strutturale. Certo, contenuti migliori aiuterebbero a resistere alla crisi e ad attrezzarsi per il futuro, ma non bastano — diciamo che sarebbero una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Il fatto è che con la rivoluzione digitale la stampa ha perso centralità. Prima la stampa presidiava uno snodo ineludibile delle relazioni umane (eravamo un po’ i gabellieri dell’informazione, della comunicazione), e per farlo aveva bisogno di una poderosa organizzazione industriale. La libertà di stampa, ebbe a dire un osservatore novecentesco, riguarda solo coloro che possiedono le macchine per stampare, le rotative (“Freedom of the press is guaranteed only to those who own one”, A.J. Liebling). Questo non è più e non sarà più così, “pubblicare” vuol dire spingere il tasto “pubblica”. Ciò ha comportato la crisi, appunto, strutturale del giornalismo come industria, come settore industriale.

Il problema, particolarmente acuto in Italia, è che tutta l’organizzazione professionale e sindacale di coloro che si occupano di giornalismo è tarata su quello schema, su un’industria che esiste solo come residuo. La cultura professionale che questa organizzazione esprime è di conseguenza (inevitabilmente?) inadatta a comprendere e quindi ad affrontare la crisi per come si presenta, avrebbe l’impressione, in un certo senso, di negare se stessa. Ma parliamo di una rivoluzione industriale, sociale e culturale e le rivoluzioni sono eventi sanguinosi.

Se sparisce il giornalismo come industria, del giornalismo restano o meglio possono restare i valori. Se giornalismo non è più solo “ciò che propongono i giornali” o “ciò che producono i giornalisti e le giornaliste”, possiamo dire che giornalismo è “informazione selezionata e presentata secondo determinate regole”, quelle che in Italia chiamiamo deontologia e che nei Paesi di lingua inglese si chiamano più chiaramente ethics.

(Non apriamo qui il dibattito su quanto poco nella stampa italiana le pur limitate regole esistenti siano in effetti rispettate [un solo esempio negativo: la citazione delle fonti, art. 9, comma e) del Testo unico dei doveri del giornalista], ma è evidente che se non ci ritroviamo più nemmeno in questo, allora dichiariamo il giornalismo morto insieme alla sua industria e la chiudiamo qui. Invece penso sia utile andare avanti).

Se, dunque, il giornalismo è quella cosa lì, “giornalista” è la persona che produce quel giornalismo, secondo quei criteri. Non è “giornalista”, o non lo è più, chi non lo fa o smette di farlo, a prescindere dalla eventuale sua iscrizione a un ordine professionale. Penso infatti che questa definizione debba essere utilizzata per descrivere ogni figura professionale le cui scelte influenzano la qualità del giornalismo prodotto.

Dovremo convincerci che “giornalista” non è solo chi scrive (fotografa/riprende video, ecc.), ma anche, ad esempio, chi struttura un database redazionale, chi scrive un software per l’analisi di testi, chi progetta l’architettura dell’informazione di un prodotto, chi costruisce strumenti digitali editoriali in genere, ecc., purché lo faccia secondo i criteri etici del giornalismo, definito come sopra. Dovremo addirittura esigere che anche i prodotti di queste funzioni siano concepiti e creati nello stesso quadro deontologico.

Piattaforma di relazioni

Vedo già colleghi e colleghe che stanno per alzare la mano con obiezioni e dubbi di ordine pratico, legale, nonché sindacale. Obiezioni e dubbi che hanno ovviamente una loro ragion d’essere nella situazione data, ma non ci stiamo dicendo che proprio la situazione data è il problema?

C’è una ulteriore conseguenza culturale del quadro che abbiamo cercato di disegnare: quelli che ancora chiamiamo “giornali” (qualunque sia il canale che adoperano per diffondere le loro informazioni) dovrebbero smettere di pensare se stessi come fabbriche di contenuti/notizie e riconoscersi, invece, come “piattaforme per le relazioni sociali”.

Dico “riconoscersi” perché tali sono sempre stati, le informazioni che diffondevano erano lo strumento per creare legami sociali, economici, politici. Sui giornali si annunciavavo la morte e la nascita delle persone; sui giornali era costretto a comunicare il candidato a sindaco; sui giornali protestava la vecchietta con il lampione rotto davanti a casa; sui giornali l’azienda pubblicizzava il suo ultimo prodotto; sui giornali i cittadini e le cittadine si riconoscevano membri di una comunità sociale, culturale, politica (no, le filter bubble e le echo chamber non sono fenomeni nati nell’universo digitale).

Parte delle ragioni della crisi strutturale che viviamo da oltre vent’anni è che altri protagonisti, altre aziende hanno scoperto modi per costruire piattaforme sociali, modi assai più efficienti, che hanno dato potere alle persone un tempo solo oggetto di comunicazione, rendendole almeno in parte soggetti. Così facendo, hanno spinto ai margini le inefficienti piattaforme preesistenti, i “giornali” in primo luogo, e hanno acquisito un potere immenso di orientamento.

Diciamolo in altro modo: nella funzione essenziale del giornalismo quale lo abbiamo conosciuto fino alla fine del secolo scorso, gli ingegneri hanno sostituito i giornalisti. Non basterebbe questo per cancellare ogni residua pretesa di distinzione tra professioni “tecniche” e professioni “liberali”?

Fabbriche di dati

Tutte le aziende digitali sono, in ultima istanza, “fabbriche di dati”. Dati che entrano nel sistema, che sono selezionati, assemblati, trattati e poi dati che escono dal sistema, il prodotto di valore. Gli organi d’informazione non fanno eccezione, sono a tutti gli effetti aziende digitali, cioè fabbriche di dati; si tratta di vedere con quali criteri i dati delle “fabbriche giornalistiche” sono scelti, elaborati e prodotti.

Entra di prepotenza, a questo punto, la discussione sullo “algoritmo”, o come preferisco dire sugli algoritmi, plurale. Sappiamo tutti che un algoritmo è sostanzialmente una “ricetta”, anche se molto complicata, e gli algoritmi non sono solo il mestiere degli ingegneri; i giornalisti e le giornaliste, tutti i sacrosanti giorni, applicano algoritmi da loro creati. Quando devono decidere che cosa mettere in pagina o in scaletta e che cosa scartare, quanto spazio dargli, come costruire l’articolo, secondo quali formule.

Chi fa il nostro mestiere ama pensare che quello che produce sia solo frutto di intelligenza e creatività individuali. Specie in Italia, in nome dell’autorialità e della “bella scrittura” tendiamo a respingere ogni idea che un articolo (un servizio radio-televisivo ecc.) possa essere costretto in formule prestabilite. A parte il fatto che alcuni dei capolavori della lirica mondiale, cioè il massimo della soggettività autoriale, sono stati espressi in formule rigidissime (“Tanto gentile e tanto onesta pare…”), basta applicare un po’ di facile di analisi dei testi alla produzione giornalistica quotidiana per dedurne le quattro o cinque formule prevalenti, anche se spesso inconsapevoli. Formule, algoritmi.

Allora il problema non è “l’algoritmo”, il problema è che cosa produce, come è scritto, da chi è scritto, con quali criteri è scritto quello specifico algoritmo. Se un software è in grado, come è in grado ormai da diversi anni, di “leggere” e ordinare in una costruzione di senso decine migliaia di documenti ottenuti da giornalisti con una richiesta di accesso agli atti, è evidente che chi scrive quel programma dovrà essere un “giornalista”, cioè un professionista guidato dalle regole etiche e deontologiche del giornalismo, anche se non ha mai scritto e mai scriverà un articolo in vita sua.

Non è questione di contenuti

Ciò vale anche per quei sistemi digitali che vanno sotto il generico nome di Intelligenza artificiale, in particolare i sistemi di intelligenza artificiale generativa. Altri hanno ragionato sui rischi che questi possono comportare per le professioni giornalistiche, ma anche sulle straordinarie opportunità che offrono. Dal punto di vista del “quadro”, dell’utilità e della disutilità sociale (astraendo cioè dalle pur reali e preoccupanti conseguenze sulla vita di ciascuno addetto alla vecchia “industria giornalistica”), la questione è se le informazioni generate da sistemi d’intelligenza artificiale possano essere di qualità giornalistica, intesa nel senso valoriale che abbiamo cercato di definire sopra.

Il problema culturale, organizzativo e in definitiva politico è immaginare come tutto questo possa avvenire, in una situazione nella quale le grandi piattaforme digitali non hanno mai pensato a se stesse e ai loro prodotti in termini di giornalismo e nella quale gli organi d’informazione giornalistica pensano ancora di essere solo fabbriche di notizie. Anche perché negli anni le piattaforme digitali che hanno spinto ai margini della rete di comunicazione sociale gli organi d’informazione giornalistica, hanno acquisito una forza e una potenza che difficilmente potrà essere scalfita dal singolo organo d’informazione, fosse anche il migliore e più potente del mondo.

Esistono — è noto — tentativi, da parte di editori, redazioni, autorità politiche e regolamentari, di imbrigliare, normare o anche semplicemente di negoziare la funzione sociale delle grandi piattaforme digitali, ma sono concentrati quasi tutti sull’oggetto sbagliato: i cosiddetti contenuti. Il controllo dei contenuti, la difesa dei contenuti, la distribuzione dei contenuti. Editori, redazioni, autorità politiche e regolamentari sono spinte a ripetere i meccanismi noti della comunicazione e della politica della comunicazione dell’era pre-digitale. La logica delle trattative da potenza a potenza, come ad esempio accadeva e accade nel campo radiotelevisivo.

È la concorrenza, bellezza

Il confronto andrebbe invece spostato dalla discussione intorno ai contenuti a quella del mercato, della concorrenza. Se tutte le aziende digitali, comprese come abbiamo detto quelle editoriali, sono dirette concorrenti di Google, di Facebook o di altre simili piattaforme, la questione da affrontare è la posizione dominante degli attori principali, i quali di fatto precludono l’accesso al mercato dei concorrenti. Il mercato, come si è detto, non è quello dei contenuti, ma quello dei dati (che nel nostro caso sono raccolti e trattati attraverso le informazioni giornalistiche).

Certo potrebbe essere troppo tardi. Ancora una decina di anni fa una politica antitrust innovativa ed energica, basata su questi presupposti, avrebbe potuto trovare una soluzione. Per esempio, con l’imposizione alle grandi piattaforme digitali di un break up funzionale, che proibisse l’uso di dati raccolti nell’erogazione di un servizio, al fine di creare ed erogare di servizi diversi. Ora tutti ci accorgiamo del problema guardando ai suoi effetti. In fondo tutti i sistemi di intelligenza artificiale, per i quali ci stracciamo le vesti e che ci fanno temere per il nostro futuro, sono stati creati e nutriti di dati raccolti da quelle stesse o da altre aziende ad altri fini.

La politica antitrust è cosa che va ben oltre i poteri di un editore giornalistico o di una redazione, quello che essi possono fare è cominciare a comprendere l’ordine dei problemi e il loro ruolo in essi. Vediamo, invece, politici, editori, redazioni — ancora fermi a una concezione industriale del giornalismo — che nel polemizzare e tentare di negoziare con le grandi piattaforme, attribuiscono loro paradossalmente ancor più potere. Ad esempio offrendo, in molti casi addirittura imponendo loro poteri giurisdizionali.

Le colleghe e i colleghi che già prima erano lì con le mani alzate per esprimere le loro obiezioni, ora immagino stiano friggendo. Che ci sta dicendo questo, che dobbiamo buttare a mare tutto, ordine, sindacato, contratto, i prodotti tradizionali? Ovviamente no, anche le battaglie di retroguardia in una guerra sono importanti, se scelte bene e ben condotte consentono di prendere tempo, di dare al resto delle forze lo spazio per attaccare e conquistare le nuove posizioni. Ma sono sempre battaglie di retroguardia e con le battaglie di retroguardia non si è mai vinta una guerra.

La nostra guerra, quella che stiamo combattendo, non è per la sopravvivenza dei giornali e forse neppure delle giornaliste e dei giornalisti per come li pensiamo oggi; la guerra che stiamo combattendo e che speriamo di vincere è per la sopravvivenza della informazione che definiamo giornalismo, l’informazione creata in base ai parametri etici e deontologici che abbiamo detti. Senza la quale non si dà società democratica, oggi come ieri.

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Mario Tedeschini-Lalli

Antico giornalista. Consulente di editoria digitale. Docente di Giornalismo digitale. Studioso di Storia contemporanea. Blog (2003/18): http://bit.ly/blogmario